Parole lontane sempre presenti

 

Lisa Ferlazzo Natoli 1

Un pesce piomba dal cielo durante una pioggia incessante che sembra durare da un secolo e prelude alla fine del mondo. Potrebbero essere gli ingredienti di una profezia o i presagi di un’apocalisse, ma sono la soglia che ci fa entrare in una saga familiare dagli intrecci di una soap opera e dal sapore di un terribile e beffardo mito greco. Una saga in cui regnano i segreti, e dunque le omertà e le amnesie, ma soprattutto in cui le colpe dei padri ricadono sui figli inconsapevoli, che si trovano a ripercorrere orme già percorse e soprattutto parole già pronunciate. When the Rain Stops Falling è l’opera del drammaturgo (e sceneggiatore) australiano Andrew Bovell, che Lisa Ferlazzo Natoli ha presentato in una mise en espace in vista di una futura mise en scène. Ma la potenza del testo (ben tradotto da Margherita Mauro), nella sua nudità travolgente in due ore incalzanti di dolore e mistero, e la lucidità del semplice allestimento al Teatro Argentina sono talmente appaganti da sconsigliare – a mio avviso – un vero e proprio allestimento, tanta è l’efficacia della parola in questa versione spartana da non far rimpiangere l’assenza di quanto dovrebbe fare ‘spettacolo’ (che pure c’è: una scenografia minimale costituita da un tavolo e poche sedie; movimenti e interpretazioni degli attori capaci di evocare ambienti e situazioni). Il nudo ‘porgere’ le parole – e dunque i silenzi, e dunque gli oltraggi e le pene – sembra la condizione perfetta per restituire l’asciuttezza incalzante e claustrofobica di vicende che proprio sul sottile spessore di quelle parole giocano tanto della loro verità.

I personaggi sono sette: i cinque maschili sono fissati nella loro età, i due femminili compaiono in due incarnazioni, cioè in gioventù e in età più matura. I luoghi e i tempi si alternano, anzi si sovrappongono, coesistono: le generazioni precedenti convivono con l’ultima, dal 1959 al 2039, come silenziosi fantasmi, voci lontane sempre presenti, verrebbe da dire prendendo a prestito il titolo di un film di Terence Davies, o come – in versione più leggera – i Fantasmi a Roma del film di Pietrangeli. Nell’allestimento proposto da Ferlazzo Natoli, l’albero genealogico è proiettato sullo sfondo, con i nomi di chi parla che si illuminano più vivacemente, cosa che rende più comprensibile l’intricatissimo dedalo drammaturgico ideato da Bovell. Non solo: la proiezione quasi permanente dello scheletrico albero genealogico ci ricorda che il punto centrale del discorso non è tanto scoprire la ‘vera storia’ di una famiglia o le radici dell’ultimo superstite, ma è soprattutto la famiglia stessa come trama di vite vissute, le cui gioie e i cui dolori si perdono nella memoria rimanendo saldamente impressi nell’essenza stessa dei discendenti. Puoi non conoscere la storia dei tuoi genitori o dei tuoi nonni, insomma, ma porterai impressi nel corpo e nella mente, perfino nella lingua e nelle parole, i segni della loro esistenza. L’ultima scena ha la sconvolgente potenza di una rivelazione che è al tempo stesso rasserenante e inquietante: l’ultimo padre dona all’ultimo figlio vecchi e innocenti oggetti rinvenuti in una valigia di cui non conosce la storia e non comprende il significato. La nostra eredità di esseri umani sta in quegli oggetti trasmessi da chi non sa a chi non sa (e non sa che farsene), senza rendersi conto che in quegli oggetti sta la chiave per comprendere gran parte di ciò che è e di ciò che dice e fa: geni indecifrabili del nostro stesso dna. Gli oggetti tirati fuori dalla valigia, anzi portati con sé da ciascuno degli avi-fantasmi, sono reperti di un’impossibile archeologia del dolore, che è il retroterra della storia personale di ciascuno di noi. La risposta alla domanda per eccellenza – chi sono io? – sta in qualche cartolina, in una scarpa di bambino, in un vaso per le ceneri, in un libro francese. Un rebus di cui si è persa la chiave. E’ questo l’uomo per Bovell?

Lisa Ferlazzo Natoli 2

Procediamo con ordine, per così dire… Gabriel York ha abbandonato il figlio da piccolo e ora vive da solo trascinando malamente la propria esistenza ferita, in una grande città piegata da un diluvio costante. Il figlio Andrew, diventato adolescente, lo chiama al telefono per andarlo a trovare. Perché? Da questo prologo si innesca la lunga rievocazione delle vicende familiari, in rapidi flash che vanno avanti e indietro nel tempo e che svelano a poco a poco alcuni fatti decisivi. Non solo ci si avvicina alla verità in cerchi concentrici, con un movimento di approssimazione sempre più preciso, ma in quei cerchi concentrici c’è anche una preziosa orchestrazione di elementi ricorrenti e di parole ricorrenti, dall’ispirazione profondamente musicale: il leit motiv come esercizio di memoria, dispositivo di riconoscimento della verità e suggello di una intrinseca ‘necessità’ di questa genealogia fatta di troppe persone misteriosamente scomparse, prematuramente morte o che semplicemente trascinano l’esistenza centellinando ricordi e amnesie. La sintesi è in realtà molto asciutta. Tutto parte da Henry e Elizabeth, marito e moglie inglesi: lei donna colta e intelligente che cita Diderot, lui che alla fine si rivelerà un pedofilo. Lei lo caccia per salvaguardare il figlioletto Gabriel Law, che cresce facendo domande sul padre scomparso, destinate a rimanere senza risposta. Henry va in Australia, da cui spedisce cartoline al figlio, che la madre tiene nascoste, e dove scompare senza lasciare traccia, non senza aver prima violentato e ucciso un bambino. Gabriel, diventato adolescente, sente il richiamo dell’Australia e decide di partire. Lì, in un lembo di terra deserta e abbandonata, conosce Gabrielle, proprio la sorella del bambino ucciso, la cui morte ha innescato i suicidi per disperazione dei genitori. Gabriel ama Gabrielle, lei non ricambia ma decide di rinunciare alla verginità con lui, rimanendo incinta; correndo in auto, andranno a schiantarsi in un terribile incidente in cui Gabriel perderà la vita. Passa di lì Joe, che salva Gabrielle, di cui diventa marito, accettando il futuro bambino che lei ha in grembo: che è quel Gabriel York che abbiamo visto all’inizio. Poi Gabrielle comincerà a perdere la memoria per colpa dell’Alzheimer, e deciderà per il suicidio assistito da Joe che farà perdere le sue tracce.

Lisa Ferlazzo Natoli 4

Tutti questi personaggi sono sempre presenti in scena, insistono negli stessi spazi, si incrociano, talvolta vorrebbero perfino parlarsi tra di loro a distanza di paesi e di decadi come ad avvertire il sé futuro o il sé passato degli errori o delle possibilità. Come dicevo, tutti sembrano condividere alcune parole, alcuni oggetti, alcuni modi di dire, come i morti sotto la pioggia nel Bangladesh, uno stupido modo di dire che alla fine – dopo 80 anni – mostrerà di essere vero. Segni, presagi, ma soprattutto fili rossi che permangono nel dna di un albero genalogico che mostra costanti inflessibili, come in una cupa visione di predestinazione, in cui tutti i padri scompaiono lasciando i figli bambini. Nel quadro complessivo dell’opera, proprio il rapporto patrilineare è quello più focalizzato e al tempo stesso sgretolato: non ci sono dialoghi tra padri e figli, se non l’ultimo imbarazzatissimo confronto, nel quale il rapporto di sangue privilegiato su cui si fonderebbe pomposamente tanta retorica familiare e familista rivela essere più inconsistente di un alito di vento, con un padre vigliacco e incapace che fronteggia un figlio senza qualità. I rapporti sentimentali e coniugali sono ancor più lacerati. Henry ed Elizabeth sembrano usciti da una commedia molto british per la brillantezza dei loro dialoghi, ma nascondono la più agghiacciante delle rivelazioni, che porteranno la donna a una chiusura marmorea e quasi autistica rispetto al mondo, dopo aver cacciato il marito pervertito, al punto da rimanere impassibile di fronte alla tragica morte del figlio 28enne, a non andare al suo funerale, a lasciare che le sue ceneri se le tenga chi vuole. Quest’ultimo e la sua Gabrielle, che potrebbero incarnare la giovane coppia dell’innocenza e della speranza in una lontana new frontier, vivono una storia sbilanciata tra l’innamoramento di lui e l’opportunismo di lei, segnata dalla morte cruenta di tutti i membri della sua famiglia, fino all’incidente fatale, risolutore come un deus ex machina. E poi Gabrielle e Joe duplicano questo rapporto sbilanciato, che significativamente ha il suo apice nell’Alzheimer, cioè nella malattia che si esprime proprio con la rimozione della memoria. Ognuno trascina un proprio dolore, che nella famiglia (o nel rapporto sentimentale) non ha la sua attenuazione, bensì la sua cassa di risonanza: tutti debitori della hybris del capostipite Henry Law. Si vorrebbe o si dovrebbe fuggire da quella famiglia, e lo si fa, ma come per un incanto o una maledizione la famiglia rimane sempre unita ad aleggiare in forma di fantasmi nelle stanze dei discendenti. “Ognuno sta solo sul cuor della terra”, come dice Quasimodo? No, Bovell direbbe che ognuno trascina con sé tutta la sua ascendenza, ma senza conoscerla davvero: gli sembra di essere solo, ma è una sola moltitudine, fatta di reperti incomprensibili, raccolti a un tavolo da pranzo, un lungo tavolo dove si succedono le generazioni, come nel Lungo pranzo di Natale di Thornton Wilder, ma senza più quella linearità cronologica.

Lisa Ferlazzo Natoli 3

E il pesce? Quello è caduto dal cielo all’inizio, come le rane sulle strade di Magnolia nel film di Anderson, durante il nuovo diluvio universale che sembra attraversare le epoche e i luoghi e prelude a un’imminente fine del mondo. E’ il pesce che l’ultimo padre dovrà cucinare all’ultimo figlio: il simbolismo è dietro l’angolo, ma Bovell lo stempera. Perché il pesce diventa uno dei fili rossi che attraversa le generazioni, che discettano di zuppe di pesce così come di imbiancatura delle pareti, di vestaglie nuove, di cappelli dimenticati e ritrovati… E ancora ritorna la questione: quando parliamo, quanto c’è di nostro e quanto invece siamo parlati da chi ci ha preceduto? Quando agiamo, quanto c’è di nostro e quanto invece siamo agiti dai nostri padri e madri? Il rapporto tra predestinazione e libero arbitrio è una fragile membrana che per tutta l’opera continua a oscillare pronta a esplodere: tema antico, che risucchia When the Rain Stops Falling dalla tragedia attica su su fino alla terribile profondità dei testi biblici, dove padri e figli vivono costantemente in una condizione di scontro o abbandono. I tre figli del testo di Bovell sono tutti abbandonati dai rispettivi padri: discendenze salde geneticamente ma spezzate umanamente. Perfino i cognomi testimoniano la sofferta evoluzione di questa famiglia, che parte da Henry Law… e se l’onomastica ha una sua ragione, quel “Law” risuona proprio beffardo. Così, a parte il primo figlio (Gabriel Law), gli altri due portano il cognome materno, segnando un ulteriore distacco – anzi, una vera estraneità – rispetto al padre: York e Price (e, ancora, è forte la densità semantica in quel “Price” portato dall’ultimo discendente venuto a reclamare silenziosamente il riscatto della propria esistenza).

Su tutto, il peso del tempo. Non si tratta semplicemente di una storia che si sviluppa in 80 anni di solitudine: il nostro tempo presente sta in mezzo a quegli 80 anni, perché il ritrovamento dell’ultimo padre e dell’ultimo figlio avviene nel 2039 (il testo di Bovell è del 2008, e noi siamo nel 2017). Siamo accerchiati, piantati nel mezzo della genealogia che ormai conosciamo nei suoi più sofferti dettagli. E il punto più terribile, che supera libri biblici e tragedie greche, Freud e Diderot, è la lucida consapevolezza che sappiamo già come andrà a finire e non possiamo farci niente. Non possiamo arrestare il tempo. Le fratture che danno origine all’identità di ciascuno di noi sono attive e continueranno a provocare ulteriori fratture e abbandoni. Possiamo solo esserne testimoni, e rivederci nel 2039 sotto la pioggia incessante nella quale piovono pesci improbabili e figli dimenticati.

 

AGGIORNAMENTO – Dopo questa mise en espace, lo spettacolo è arrivato al debutto nel 2019: qui si può leggere la mia riflessione.

 

When the Rain Stops Falling di Andrew Bovell; un progetto di lacasadargilla e Alessandro Ferroni; regia Lisa Ferlazzo Natoli; traduzione inedita Margherita Mauro; con Alessandro Averone, Caterina Carpio, Lisa Ferlazzo Natoli, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Camilla Semino Favro, Francesco Villano; coordinamento artistico Camilla Carè, Maddalena Parise. Mise en espace al Teatro Argentina, Roma, 3 aprile 2017.

Visto a: Roma, Teatro Argentina, 3 aprile 2017.

(le fotografie sono di Sveva Bellucci)

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