C’era una volta il Nuovo Teatro

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Mezzo secolo di Nuovo Teatro in Italia 1967-2017: è il sottotitolo del convegno Ivrea Cinquanta, a cura di Marco De Marinis, che a Genova, dal 5 al 7 maggio, ha riunito studiosi, artisti e critici per riflettere sulle origini del Nuovo Teatro in Italia e sulla sua storia negli ultimi 5 decenni. In realtà la sua storia partirebbe un po’ prima, diciamo dal 1959, ma da tempo è l’anno del mitico/mitizzato convegno di Ivrea, il 1967, a costituire il grande punto di partenza ideale. La responsabilità di questa forzatura storiografica fu di Franco Quadri, dieci anni dopo, e con una ragione: non solo fu lui, con Giuseppe Bartolucci, Ettore Capriolo e Edoardo Fadini, a ispirarlo, ma soprattutto quel convegno fu la prima occasione collettiva di riflessione dei protagonisti (ancorché piuttosto fallimentare, a leggere le cronache) e di tentativo di costituire un movimento più o meno compatto. Insomma, il Nuovo Teatro era già nato da anni, il convegno a detta dello stesso Quadri fu una “codificazione tardiva”, ma tant’è: se dobbiamo ritrovarci a cadenza decennale per parlare di Nuovo Teatro, continuiamo a farlo sempre sulla linea del 1967.

Pubblico qui l’intervento che ho fatto al convegno, in attesa della futura pubblicazione degli atti a cura dell’organizzatore Teatro Akropolis. Al convegno ho voluto condividere alcuni spunti di riflessione, grezzi e sintetici, riguardo alle origini del Nuovo Teatro, alla sua prima fase degli anni 60/70; e qui allargo la condivisione ai lettori di questo blog.

 

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Primo spunto di riflessione: più della carica innovativa dei primi rappresentanti del Nuovo Teatro quel che è riuscito a formare ciò noi chiamiamo Nuovo Teatro è stata la condivisione.

Non voglio sminuire alcunché, ovviamente, ma credo che ad affermare il Nuovo Teatro come tale sia stata soprattutto la diffusione ‘virale’ del fenomeno, la moltiplicazione delle persone coinvolte. Per esempio, senza l’esplosione delle cantine romane o dei gruppi di base, non parleremmo di Nuovo Teatro, ma solo della genialità più o meno isolata di alcuni protagonisti. E non parleremmo di Nuovo Teatro senza un potente assist della nuova critica, che è stata determinante (se non proprio fondativa) nell’individuarlo, accompagnarlo e alimentarlo. Probabilmente dico un’ovvietà o forse un’ipotesi che andrebbe indagata meglio: il Nuovo Teatro, nella sua prima fase di slancio, non è stato soltanto un fenomeno di reale rottura artistica, ma anche e soprattutto un fenomeno di auto-riconoscimento e di auto-alimentazione che è cresciuto con il suo diffondersi. Innovatori, sperimentatori o genii ci sono sempre stati: quello che c’è di nuovo nel Nuovo Teatro è che l’impressione e la pratica della sperimentazione si diffondono, mettendo ben presto a portata di mano di tanti quella competenza (ovviamente una nuova e diversa competenza) che in altre epoche era confinata a pochi professionisti.

Prima degli iniziatori del Nuovo Teatro ci sono stati altri sperimentatori, che infatti sono stati riconosciuti come antenati nobili, e cioè le avanguardie storiche, a cominciare dal futurismo, ma ci sono stati anche ‘semplici’ (si fa per dire) innovatori, che hanno tentato di allargare i confini del pensiero e della pratica teatrale. Senza che però ciò si sia mai trasformato in reale fenomeno condiviso e allargato. Nell’Italia tra le due guerre, registi come Bragaglia o Fulchignoni, esperienze di partecipazione come il teatro di massa o come certo teatro per e con i bambini (ovviamente diverse da come si concepisce oggi la partecipazione!), o outsider come certi artisti di varietà (solo pochi giorni fa Massimo Marino su Doppiozero ha legato il ricordo di Totò proprio al Nuovo Teatro; ma ci sarebbe anche Petrolini, per dire), hanno attivato modalità o segnali – primitivi e ambigui finché si vuole – di creazione nuova, ma ciò che è mancato è stato quell’humus che invece ha immediatamente accolto e soprattutto rilanciato, anche in senso emulativo, le esperienze fondative del Nuovo Teatro come, per esempio, quelle di Carmelo Bene o Carlo Quartucci. Una sorta di “comunità” (fra mille virgolette: il termine è improprio; e a prescindere dagli scontri avvenuti al Convegno di Ivrea e altrove) in forte e capillare espansione, autoalimentazione e moltiplicazione di pratiche artistiche. E’ la massa (relativa) dei rappresentanti del Nuovo Teatro ad averlo fatto diventare Nuovo Teatro, non solo le novità in sé.

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Giuliano Scabia e Marco De Marinis.

 

Secondo spunto di riflessione: per individuare correttamente la collocazione del Nuovo Teatro occorre guardare fuori dal teatro.

Il Nuovo Teatro si sviluppa in un’epoca in cui mutano non solo le condizioni di produzione e fruizione dell’arte, ma anche i rapporti sociali. Prende forma nel momento in cui la massa assume un protagonismo inusitato nella storia, in cui si allarga l’istruzione, in cui l’accesso agli strumenti di produzione culturale è sempre più alla portata di tutti, in cui si impongono nuovi media di massa, e soprattutto in cui mutano i secolari – se non millenari – rapporti generazionali, facendo emergere una fascia d’età negletta, che in pochi anni diventa il vero fulcro sociale e ‘mitico’, quella dei giovani. Categoria inesistente come tale, fino ad allora, che dal dopoguerra rapidamente si afferma come protagonista, guidando i venti del “nuovo” (Nuovo Teatro compreso, e non solo: ricordo che nel 1954 nasce la famosa Compagnia dei Giovani, per l’appunto, formata da attori, come si direbbe oggi, under 35), arrivando al suo apice nel Sessantotto, che di questa grande evoluzione sociale e culturale nuova/giovane rappresenta il punto di arrivo e di sua “messa a regime”.

E se, come aveva intuito Pasolini (che, ricordiamo, contribuì anche lui in qualche modo, ma diversamente, a immaginare un altro “Nuovo Teatro” con il suo Manifesto del 1968), questa spinta nuova/giovane non era altro che una riedizione della vecchia lotta per l’avvicendamento generazionale, va detto che prima i figli volevano sostituirsi ai padri in quanto nuovi adulti, mentre da questo periodo – tra gli anni 50 e 60 – iniziano a volersi sostituire in quanto “giovani” in sé, cioè portatori di una alterità generazionale, che ben presto è diventata trionfalmente vincente nella cultura odierna (spinta anche da quel sistema consumistico che proprio Pasolini aveva indicato come dispositivo centrale della grande mutazione antropologica di quegli anni). Al punto che se prima i 15enni ambivano a essere riconosciuti al più presto come adulti per entrare in società, oggi gli ultra50enni continuano inconsciamente a sentirsi giovani e a comportarsi come tali, perché questo garantisce loro un accreditamento nella società odierna.

In sintesi, se vogliamo parlare di storicizzazione del Nuovo Teatro, occorre allargare lo sguardo anche a questi aspetti di trasformazione sociale, contemporanea al suo avvento, che possono aiutare a spiegarne il fenomeno in un contesto epocale coerente di pratica e mito del nuovo (e del giovane).

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Carla Tatò.

 

Terzo spunto di riflessione: l’avvento del Nuovo Teatro è interpretabile alla luce della categoria del “centro”.

Di questo ho già avuto modo di scrivere nel mio libro sulla ricerca di un certo teatro politico e di partecipazione sperimentato nel 1969: 600.000 e altre azioni teatrali per Giuliano Scabia. Il Nuovo Teatro interagisce con il teatro ‘vecchio’ in termini di critica della centralità. Ogni pratica del Nuovo Teatro è una presa di posizione rispetto a questa coordinata logistico-concettuale, parallelamente a quella critica dei centralismi e delle centripetie espressa dal più ampio movimento di cui ho parlato prima: perlomeno fino a tutti gli anni 70. En passant, mi verrebbe da dire, da questa prospettiva, che il cosiddetto “riflusso” sia iniziato quando, nel 1981, un giovane musicista ex sperimentatore 35enne di nome Franco Battiato canta “cerco un centro di gravità permanente”; ma più coerentemente col nostro discorso ricordo che il primo grande momento di affermazione istituzionale del Nuovo Teatro è stato nel 1983 con il riconoscimento ministeriale dei Centri di produzione teatrale.

La sfida al centro lanciata negli anni 60 e 70 è totale. Alla storica centralità dell’edificio teatrale (anche urbanistica) il Nuovo Teatro oppone prima piccoli spazi alternativi, poi spazi non teatrali, e infine strade e piazze. Alla centralità prospettica dello sguardo dello spettatore oppone la pluralità dei fuochi d’attenzione, perfino degli spazi. Alla centralità del testo oppone la priorità paritaria di tutti gli elementi che compongono lo spettacolo, attraverso la prassi della scrittura scenica. Alla centralità dell’attore o del regista oppone: da un punto di vista operativo, la prassi di un lavoro collettivo; da un punto di vista scenico, la messa in evidenza di altri protagonisti (come, per esempio, gli oggetti); da un punto di vista concettuale, l’avanzata dello spettatore e della sua responsabilità. Alla centralità di una tradizione univoca oppone una pluralità di riferimenti didattici e pedagogici, fino all’esplosione di una rete capillare e molteplice di auto-formazione. Infine, alla centralità stessa dello spettacolo, e in definitiva del teatro, oppone una pluralità di azioni che precedono lo spettacolo o prescindono da esso, fino a esplorare i territori impalpabili dell’animazione. Si tratta di reazioni – per continuare anche terminologicamente con questa categoria – centrifughe o multicentriche, spesso decentrate (con tutto ciò che la stagione del decentramento portò nel bene e nel male) e comunque eccentriche. L’eccentricità, nata come alternativa e distacco dal centro, diventa in molti casi valore in sé, cioè gusto del bizzarro o arzigogolato o criptico, gusto – come direbbe Carlo Verdone – del “famolo strano”, che credo sia comune esperienza quando ci si trovi di fronte ad artisti che scambiano la ricerca con la bizzarria, credendo che basti “farlo strano” per accreditarsi come sperimentatori.

Tra tutte le reazioni al centro, accenno solo alle due più radicali e significative. Da una parte Carmelo Bene, che contro il centro impone in maniera estrema, geniale, un altro centro: lui stesso, egocentrico assoluto. Dall’altra parte, la linea anti-centrica, che in quegli anni 60 è sostenuta dalle prime esplorazioni di Quartucci e dalla “scrittura acentrica” e dallo “schema vuoto” di Scabia, che porterà entrambi a una scelta nomade, il primo con il viaggio teatrale del Camion, il secondo con la pratica pluridecennale del Teatro Vagante.

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Giuliano Scabia e Carlo Quartucci.

 

Quarto e ultimo spunto di riflessione: possiamo cercare di staccarci dal centro finché vogliamo, ma nel nostro universo una delle più importanti leggi della fisica è quella della gravità, insomma il centro attrae.

Ben più forti e diffuse rispetto alle scelte più radicali, si moltiplicano reazioni disposte in modo concentrico, che si muovono cioè come satelliti rispetto al centro aborrito/rincorso, in una critica serrata che però non nasconde l’aspirazione alla propria assunzione all’interno di quello stesso centro, nello spirito di quell’avvicendamento generazionale di cui parlavo prima e nella speranza per gli artisti di un “avanzamento di grado”. Lo stesso testo di convocazione del Convegno di Ivrea pubblicato su “Sipario” pochi mesi prima – in verità molto eterogeneo per quel che riguarda le firme – lascia intravedere un atteggiamento di questo tipo, senza porre alternative in modo chiaro e netto al sistema in atto, ma semmai utilizzando una terminologia che fa uso di parole come “ricambio”, “aggiornamento” e “rinnovamento dei quadri”, e alternando frasi come “Il teatro deve poter arrivare alla contestazione assoluta e totale” a “Non vogliamo dar vita a un teatro clandestino per pochi iniziati, né rimanere esclusi dalle possibilità offerte dalle organizzazioni di pubblico alle quali riteniamo di avere diritto”. Strategia che appunto ho definito concentrica, attenta sia a proclamare l’alternativa totale sia a richiedere quasi sindacalmente, in modo più riformistico che rivoluzionario, un rinnovo generazionale dentro quelle stesse strutture che si criticano e un’equa spartizione del sistema distributivo e promozionale (e finanziario, ça va sans dire). Lo stesso Quartucci è stato pioniere anche nel rapporto del Nuovo Teatro con l’istituzione, così come lo è stato nel riconoscere il suo fallimento, perlomeno in quel primo decennio. D’altra parte, è proprio l’istituzione a favorire questo movimento concentrico e centripeto, innescando – come ha scritto Marco De Marinis – “la solita doppia strategia dell’annessione e dell’emarginazione, della blandizie e dell’ostracismo”.

Qui mi fermo, anche se poi sarebbe utile riflettere (ma esula dal mio intervento, legato alla sessione ‘storica’ del nostro convegno) su come sia andato a finire tutto ciò e quali siano oggi i punti di contatto e di distanza da quei primi due decenni. Cioè, come il Nuovo Teatro sia diventato man mano una fitta galassia che si autoalimenta in modo vertiginoso, senza aver voluto realmente creare una vera alternativa totale (a parte rarissimi esempi), ma avendo creato semmai un universo contiguo rispetto a quello contro cui aveva ambiguamente dichiarato di formarsi, al punto da ristabilire le sue centralità: centralità fisiche, politiche, artistiche, critiche, concettuali. Insomma, forse il Nuovo Teatro non è più così nuovo, non è più giovane, ma si merita le iniziali maiuscole come tutte le Istituzioni ben consolidate.

 

Ivrea Cinquanta. Mezzo secolo di Nuovo Teatro in Italia 1967-2017, ideazione e cura Marco De Marinis, convegno organizzato da Teatro Akropolis, Comune di Genova – Direzione Cultura, Palazzo Ducale – Fondazione per la Cultura, con il patrocinio di Università di Genova e Università di Bologna, in collaborazione con Casa Paganini – InfoMus, Centro Studi Alessandro Fersen. Genova, Palazzo Ducale, 5-7 maggio 2016.

(foto da Twitter – #ivrea50)

 

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