Nel nome di Peter Grimes

Peter Grimes 1

Dopo neanche dieci secondi dall’inizio della musica si sente il suo nome per quattro volte: Peter Grimes. Non credo esistano molte opere in cui il nome del protagonista sia così determinante e ripetuto in modo così ossessivo fin dall’inizio, quando irrompe quasi senza dar tempo alla musica di offrire anche solo una parvenza di ouverture o introduzione: in tutte l’opera il nome “Peter Grimes” o il solo cognome “Grimes” vengono ripetuti per almeno 60 volte. E’ come se tutti avessero bisogno di ripetere quel nome e soprattutto quel cognome, non per rivolgersi all’interlocutore, ma per inchiodarlo alle sue responsabilità onomastiche. Perché in quel Grimes c’è il verbo to grime, cioè insozzare, e c’è una rima fin troppo evidente con crimes, cioè crimini, come sembra sottolineare la vedova pettegola istigatrice della folla, quella che ripete la parola crime ben cinque volte (sulle sette totali), ricordando che il crime (e quindi Grimes) è il suo “hobby”. Dunque, per chi continua a reiterarne il nome, Peter Grimes è un criminale che insozza la società in cui vive, e perciò dovrà essere espulso. E’ chiaro fin dall’inizio. Fin da quel “Peter Grimes, Peter Grimes, Peter Grimes, Peter Grimes…” ripetuto dopo neanche dieci secondi dall’inizio della musica, e che ritorna ossessivamente in tutta l’opera, composta da Benjamin Britten nel 1945, e riproposta ora in una nuova produzione con la direzione di Juraj Valčuha al Teatro Comunale di Bologna con l’allestimento di Cesare Lievi del 2005.

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Non si tratta solo delle scelte testuali del librettista Montagu Slater: anche la musica di Britten sottolinea quel nome. Fino a inchiodarlo, subito prima del precipitare degli eventi, nell’impressionante finale della prima scena del terzo atto, quando dopo aver ricordato che l’assassino pagherà per i suoi crimini (crimes) l’intero villaggio urla il suo nome e cognome una volta, poi un lunghissimo e terribile silenzio in cui l’intera orchestra tace di botto per ben cinque secondi, poi ancora nome e cognome, e infine, dopo altri cinque lunghissimi secondi, il suo solo cognome, ormai diventato indistinguibile dalla parola con cui fa rima (Grimes!). Non è un caso, probabilmente, che all’inizio della scena successiva, quella conclusiva, il protagonista attacchi a cantare proprio senza accompagnamento orchestrale, nel vuoto musicale, là dove il coro non aveva pronunciato il suo nome, come se cercasse di nascondersi negli interstizi del suono che sorregge l’esortazione al linciaggio: è lì, nel silenzio, che Peter Grimes si ripara, cercando la sua casa, come in un presagio, nelle profondità del mare, perché è laggiù che potrà sfuggire, non al suo destino ma almeno alle urla di una folla pronta a farlo fuori, che continua a gridare: crimes / Grimes. Una fuga talmente delirante da portare lui stesso a ripetere il suo nome, come se fosse diventato parte di quella folla impazzita, con un disprezzo di sé che sta all’esatto contrario del conclusivo “Your honor, I am Joseph Wilson” detto con pacatezza e senso civile da un’altra vittima di linciaggio, nel film Fury, diretto da Fritz Lang nove anni prima dell’opera di Britten.

Solo due personaggi si rivolgono al protagonista chiamandolo per nome e omettendo il cognome, cioè soltanto “Peter”: due volte il vecchio e bonario capitano Balstrode, che gli consiglierà umanamente di affogarsi per sfuggire al linciaggio, dandogli l’addio – e quindi facendolo scomparire anche alla nostra vista – con l’innocuo “Goodbye Peter”. E ben dodici volte Ellen, l’unica parvenza di vera umanità, innamorata di lui, ma maldestramente ricambiata.

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Peter Grimes (anche l’opera si intitola così) racconta dunque le dinamiche di espulsione di un diverso dalla società. Non è un caso che l’idea dell’opera sia venuta all’omosessuale Britten insieme al suo compagno, il tenore Peter Pears (di cui è visibile su YouTube l’interpretazione nella versione del 1969 con la direzione orchestrale dell’autore stesso). Tanto per far capire l’origine di quest’opera, Britten propose addirittura la scrittura del libretto a un autore omosessuale, Christopher Isherwood, che poi rinunciò. Una richiesta che lascia intravedere una ben precisa logica nella scelta del soggetto: Peter Grimes contiene, insomma, un’allusione consapevole alla condizione degli omosessuali in quegli anni ’40 in cui fu composta l’opera. Proprio in quell’Inghilterra ipocrita che prima sfruttava il genio del matematico Alan Turing per vincere la guerra e poi lo conduceva al suicidio dopo averlo castrato, reo di essere omosessuale. Peter Grimes, insomma, è anche Alan Turing, così come è anche i tanti omosessuali vittime dell’omofobia e dell’ostracismo sociale sotto ogni cielo.

Nonostante la rinuncia di Isherwood, il tema caro a Britten del diverso incompreso, osteggiato e infine condannato a scomparire (tema che non è presente nel poema originario di George Crabbe The Borough, del 1810, a cui il soggetto è ispirato) è fondamentale, anche se il librettista finale è lo scrittore comunista Slater, che con Britten e Pears (pacifisti e obiettori di coscienza) coltiva una visione sociale e politica progressista. E quindi Peter Grimes non solo parla dell’ostracismo della folla nei confronti del diverso, ma è anche la rappresentazione più netta e inquietante del potere delle masse manovrate dall’ignoranza: una visione cupa della violenza e della banalità del male, che gli autori potevano vedere attorno a sé nelle premesse di quella spaventosa guerra durante la quale Peter Grimes era maturato. E che forse rimbalza nello spettacolo, in quello slittamento dell’originaria bettola di pescatori verso una parvenza di locale mitteleuropeo dalle sfumature da kabarett, suggerita dalla regia di Lievi e dalla scenografia di Csaba Antal (nonché dai costumi, che alludono più all’epoca di scrittura dell’opera che non a quella della sua ambientazione).

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Nell’ossessione della ripetizione del nome sta la necessità dei vari interlocutori di plasmare in modo definitivo e irrevocabile la sua personalità, come se il nome rendesse del tutto chiara ed evidente la natura del personaggio, che è quella e non è modificabile. Fino a fare di “Peter Grimes” una maschera, un attributo posticcio, una proiezione immutabile dei fantasmi della società. Perché, come tutti gli individui, anche Peter Grimes non è quello che gli altri vogliono che sia, e neanche quello che lui vuole essere, ma semmai uno nessuno e centomila, personaggio fortemente ambiguo. Vittima della società che non accetta i diversi. Ma, al tempo stesso, carnefice degli ultimi della società.

E quindi, anche riprendendo lo spunto originario di Crabbe, ecco che il protagonista rivela essere una figura tutt’altro che buona o con cui sia facile solidarizzare (e proprio in questa complessità sta la grandezza drammaturgica del personaggio). Infatti, per consolidare una posizione sociale che gli permetta di essere accettato da quel microcosmo sociale del paesello di pescatori in cui vive, Peter Grimes si trasforma in stakanovista, trascinando nel lavoro a oltranza i suoi apprendisti, che sono in realtà dei bambini ‘comprati’ all’orfanotrofio, destinati inevitabilmente a soccombere. Se il Furfantello dell’ovest di Synge fingeva di aver accoppato il padre per farsi accettare dai compaesani del villaggio di pescatori, Peter Grimes con lo stesso obiettivo sfrutta i suoi ‘figli’ virtuali incurante della loro vita. Insomma, farebbe la sua bella figura nella galleria di sfruttatori di bambini raccontati da Dickens.

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L’opera inizia nientemeno che con il processo a suo carico per la morte del primo bambino apprendista, sul suo peschereccio. E’ chiaro che si è trattato di un incidente, e infatti viene scagionato, ma la gente mormora e il giudice alimenta le chiacchiere: in sostanza, Grimes dovrebbe agire come gli altri, non sfruttare i bambini, ma avere aiutanti qualificati, insomma entrare nelle regole condivise da tutti gli abitanti del borgo. E invece lui prende un altro bambino, che sfrutta ogni giorno, domeniche comprese, e che morirà anch’egli scivolando da un dirupo, incalzato da Grimes che lo sollecita a correre al lavoro. Un orco assetato di lavoro minorile, insomma: tutt’altra personalità rispetto a quella del povero diverso incompreso.

Ma è proprio l’ambiguità della sua figura a renderlo davvero umano, e su questa linea in bilico tra il positivo e il negativo mi sembra che giochi l’allestimento di Lievi e l’interpretazione di Ian Storey, senza condanne e senza buonismi. Si rende, così, tangibile il biblico “nessuno tocchi Caino”, non perché il volitivo pescatore sia un assassino doloso, ma perché le sue colpe non possono essere motivo di errori ben più gravi, come può essere un linciaggio. Linciaggio che invece rende il coro di Peter Grimes un personaggio univoco e – questo sì – davvero mostruoso (cromaticamente soprattutto in grigio-nero contro il bianco sporco di Grimes, con semplice simbolismo). Nella massa minacciosa si agitano figure squallide o mediocri: la vedova, il dottore, il metodista, la tenutaria del locale equivoco, il prete (la chiesa è anche scenograficamente centrale in questo allestimento). Si tratta di una massa facilmente manovrabile o addirittura auto-manovrabile dalle sue stesse bufale: cosa che, oltretutto, rende quest’opera notevolmente attuale, per la sua capacità di raccontare il linciaggio che oggi passa più spesso negli impalpabili canali digitali, ottenendo peraltro gli stessi effetti. Come appunto l’induzione al suicidio.

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L’istigazione al suicidio da parte del vecchio buon capitano Balstrode, con il silenzio complice della tenera e comprensiva Ellen, è sbalorditivo e spiazzante. Perché arriva come un consiglio da amico, dato per il bene di Peter (qui chiamato senza il suo ingombrante cognome), ma è ancor più terribile della massa scatenata alla ricerca del diverso da eliminare. Perché il consiglio porta a compimento proprio il desiderio della massa senza che nessuno si sporchi le mani con il sangue altrui: un linciaggio effettuato senza usare il nome ‘linciaggio’, ossia la soluzione ideale, il delitto perfetto (e ancora torna alla mente il suicidio ‘indotto’ di Alan Turing, che è comunque posteriore all’opera). Nella notte, Balstrode spinge Peter a portare la barca in alto mare, “till you lose sight of land” (particolare non da poco: tutto deve avvenire senza visibilità), e poi a farla affondare. Solo a questo punto, compiuto il delitto perfetto, l’alba può tornare nel borgo, gli abitanti possono ricominciare la loro vita quotidiana e, come se nulla fosse successo, tutto può procedere. Sì, qualcuno dice di aver sentito una voce su un battello che sta affondando, ma nonostante gli sforzi non si vede niente (“till you lose sight of land”, appunto): paradossalmente, per la folla che stava per scatenarsi in un linciaggio spinta dai pettegolezzi, la notizia del reale affondamento di una barca è solo “rumours”, pettegolezzi. A nessuno passa per la testa che possa essere Peter Grimes. Anzi, a nessuno passa per la testa Peter Grimes stesso. Citato in continuazione per tutta la vicenda (oltre 60 volte!), il suo stesso nome adesso scompare, come non fosse mai esistito. E’ appena passata la notte in cui tutti sembravano zombie indemoniati alla ricerca dell’unico vivo da spolpare, e ora l’alba ce li presenta omologati, appagati e smemorati: non c’è traccia del diverso, neanche nei loro discorsi. Anzi, risuona solo l’evocazione quasi bucolica del villaggio, in tre quartine in rima baciata!

E la musica accompagna in modo struggente quell’evocazione che, espulso l’elemento di disturbo, ha il fascino delle cose belle, come bello è il coro (di assassini virtuali) che ora canta: sostenute da sottili archi volatili e accompagnate dalla maestosità dei fiati, le note di Britten così ‘acquatiche’ inondano l’aria in crescendo fin poi a scemare, come un’onda lieve sulla spiaggia, che nella risacca scompare lentamente dentro la sabbia, cancellando le orme e il passato. Ma qui mi fermo, perché si è già detto tanto della straordinaria musica ‘marina’ di Peter Grimes, che si allarga in ampi interludi, qui eseguiti (splendidamente sotto la direzione di Valčuha) con il sipario abbassato e che quindi lasciano allo spettatore il compito di evocare nella propria testa la visione del mare in tempesta o l’avanzare dell’alba… lasciando il villaggio, la massa, Peter Grimes e il linciaggio che non osa dire il suo nome lontani dagli occhi, lontani dal cuore.

 

Peter Grimes musica di Benjamin Britten; libretto di Montagu Slater tratto dal poema The Borough di George Crabbe; direttore Juraj Valčuha; regia Cesare Lievi; scene Csaba Antal; costumi Marina Luxardo; luci Luigi Saccomandi; assistente alla regia Ivo Guerra; maestro del coro Andrea Faidutti; con Gabriella Sborgi, Mark S.Doss, Paolo Antognetti, Charlotte-Anne Shipley, Luca Gallo, Kamelia Kader, Maurizio Leoni, Chiara Notarnicola, Sandra Pastrana, Ian Storey, Saverio Bambi, John Molloy, Carlo Alberto Brunelli / Leonardo Careddu, Amos Colzani; allestimento della Fondazione Teatro Comunale Luciano Pavarotti di Modena Teatro Comunale di Ferrara e Teatro Alighieri di Ravenna.

Visto a: Bologna, Teatro Comunale, 20 maggio 2017.

Le fotografie sono di Rocco Casaluci.

 

 

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