Copi e lo stato della satira

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Copi, “La Donna seduta”

Immobile su una sedia, in mezzo a una vignetta completamente vuota, una Donna Seduta dialoga con improbabili interlocutori che approdano al suo cospetto: uomini e donne, polli e altri animali. Sono dialoghi strani. Sospesi. Scanditi da pause esasperanti, per terminare con frasi lapidarie e spiazzanti. Nelle piccole beghe pettegole della Donna dal nasone esagerato rimbalzano temi come la vita e la morte, il sesso e l’identità, la violenza e il potere. Si ride, ma provando disagio. Così Copi si è fatto conoscere in Italia a partire dalla fine degli anni 60: prima quei fumetti rarefatti, poi commedie, racconti e romanzi, in parte ancora non tradotti, in cui l’autore forza il lettore o lo spettatore a ridere di cose indicibili.

Tragedia della contemporaneità e risate spassose si sposano in Copi (al secolo Raúl Damonte Botana, 1939-1987), mescolando l’oltraggio e la sottigliezza sotto il registro di una nera comicità e spalancando un baratro sulle nostre fragilità e sulla società in cui viviamo, senza aver paura di farci ridere mettendo in scena stupri, torture, delitti o infanticidi. Che dire dell’angosciante solitudine della protagonista del Frigo, autoreclusa in casa e costretta a inventare altri personaggi per farsi insultare e violentare? E della Torre della Défense, che si svolge tra macabri segnali di un’apocalisse imminente fra diversi e reietti prima della strage conclusiva? E L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi, dove le tre sorelle cechoviane rivivono in un mondo di transessuali nella steppa siberiana, fino alla terribile eppure divertente automutilazione di Irina? La lussureggiante fantasia tipicamente argentina di Copi si sposa con una violenza precocemente conosciuta, quando il padre, giornalista e uomo politico, scelse l’esilio con la famiglia per sfuggire al regime di Perón. Una vita randagia che approda nella grande Parigi, ma con una simpatia fortissima per l’Italia, dove giungono a Copi gli echi devastanti della dittatura di Videla e della tragedia dei desaparecidos.

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Copi

Alla sua Argentina Copi dedicò diverse opere, come la perduta Coppa del mondo sui controversi mondiali di calcio cavalcati dalla dittatura. O come Eva Perón, che costò al teatro che per primo la mise in scena nel 1970 la distruzione da parte di un commando di neofascisti: un’opera sull’avidità, che trasforma l’eroina dei montoneros in una ridicola Ubu roi del nostro tempo, paradigma deformato e abnorme del potere violento. O come l’ultimo romanzo, L’Internazionale argentina, che racconta di un’organizzazione segreta che sceglie proprio Copi come futuro presidente dell’Argentina promettendo pane gratis per tutti (e la domenica anche le paste!): una beffarda satira politica in cui, tra ambasciatori con puma al guinzaglio, misteriosi faccendieri neri e figlie di Borges, lo scrittore che fu nipote di un’intellettuale anarchica femminista come Salvadora Medina Onrubia trasforma gli intrallazzi per il potere in uno strampalato gioco di società, mettendo al centro se stesso come pedina impazzita di un grottesco ottovolante.

Copi era un ‘transgender’ assoluto, nel senso di artista oltre i confini: omosessuale, argentino fuggito in Francia, performer queer, scrittore in francese e spagnolo, fumettista e drammaturgo. Nell’osservazione dalla sua prospettiva di “diverso” aveva trovato una personale chiave di lettura della realtà, e aveva utilizzato il riso e la deformazione come chiavi di rappresentazione di quella realtà. Fino all’ultimo. Ridendo anche della propria morte, come nella sua ultima commedia Una visita inopportuna, scritta in ospedale mentre stava morendo di Aids, che vede come protagonista proprio un teatrante in ospedale mentre sta morendo di Aids. Copi volle che fosse rappresentata dai suoi amici nonostante il loro imbarazzo, ma non fece in tempo a vederla: al debutto, poche settimane dopo la sua morte, si poteva vedere il pubblico ridere e piangere al tempo stesso, in una tempesta di emozioni come solo le opere di Copi hanno saputo dare.

 

Satura 1

 

Questo mio ritratto di Copi è stato pubblicato sul numero zero di una nuova rivista, Satura. Il sottotitolo “Lo stato della satira” (che è anche quello del sito ufficiale della rivista) innesca già di per sé una vertigine polisemica, grazie al termine ‘stato’, che si moltiplica anche ribaltando i termini (la satira dello stato, in opposizione a quella “di stato”). La rivista, diretta da Luca Sossella, mette in cornice quel graffio irrequieto e salace che si fa beffe soprattutto dei potenti. Invocando la più assoluta libertà, ma senza affrancarsi del tutto da un moralismo (o una moralità) che pare necessario per spernacchiare il potere, cioè il sistema più immorale concepito dalla società umana. Sui sentieri e i crinali della satira si addentra allora questa Satura, che si può anche sfogliare integralmente on line, iniziando ab ovo fin nel titolo, che consente a Paolo Fabbri, Matteo Pelliti e Giancarlo Alfano, in apertura, di impostare il discorso. La rivista si addentra poi in numerose questioni, muovendosi soprattutto per exempla, scovando autori e protagonisti, a cominciare da Massimo Bucchi, special guest di questo numero zero, sia come autore di numerose illustrazioni (spesso recuperate dai suoi esordi) sia come oggetto di riflessione e disamina. Ma non mancano altre incursioni, da Manganelli a Flaiano, da Copi (su cui appunto ho ripubblicato in questo blog il mio intervento…) ad Andrea Pazienza, fino a Montale (Satura, ovviamente) e Gramsci, senza escludere alcuni ambienti, come il web, il mondo ebraico e quello – meno prevedibile – arabo-islamico (rievocati rispettivamente da Moni Ovadia e da Paolo Branca). Una sorta di para-enciclopedia della satira, condita da numerose firme da Alberto Abruzzese a Eugenio Scalfari, da Gabriele Frasca e Enrico Ghezzi, che nutre lasciando l’appetito…

Satura 2Infatti, molto ancora ci sarebbe da dire sulla storia, sul senso, sul contenuto e sullo statuto della satira, e c’è da augurarsi che l’avventura editoriale possa proseguire per aiutare ad addentrarsi in questa complessità. Anche perché sempre più, in Italia e all’estero, la satira è diventata terreno di scontro anche violento, anche criminale. Non sono più i tempi della ‘semplice’ censura d’antan al Guareschi o al Fo di turno, o quella più recente e ruggente che ha visto avvicendarsi i vari Daniele Luttazzi o Sabina Guzzanti, capaci però, nella società mediatica, di mobilitare piccole e grandi masse a loro favore, e quindi a trasformare la satira in ennesimo campo di battaglia di schieramenti contrapposti e ideologici (che poi, a rigore, sembrerebbe essere proprio il contrario dello spirito libero e mordace della satira). In realtà, la satira oggi sembra vivere una sempre maggiore biforcazione, tra l’irriverenza inglobata nella logica del mercato e dell’omologante società dello spettacolo, che non stigmatizza i satirici più piccanti risucchiandoli nello star system, e l’irritazione più estrema e finanche violenta. La strage di Charlie Hebdo del gennaio 2015, forse il vero punto di svolta nonostante alcune avvisaglie (le vignette satiriche danesi del Jyllands-Posten del 2005, che scatenarono ondate di violenza in molti paesi a maggioranza islamica) non è classificabile solo nella categoria del terrorismo, ma in quella ben più diffusa e trasversale dell’insofferenza alle battute anarchiche o gratuite che sono il sale della satira. Svelando un nervo scoperto tutt’altro che ricoperto, e quindi trasformando qualsiasi discorso sulla satira in qualcosa di molto più complesso. 

Charlie HebdoInsomma, se dopo quella strage di autori satirici il mondo si è retoricamente e ambiguamente unito sotto il motto “Je suis Charlie” invocando la libertà d’espressione e di satira, ben presto si è dovuto ammettere che quel motto non significava la richiesta di libertà, ma la condanna di una religione. Infatti, sono bastate alcune battute o vignette satiriche indirizzate non contro i musulmani ma contro altre religioni o categorie di genere o nazionalità per far insorgere gli stessi che invocavano “Je suis Charlie” contro Charlie e compagni. E allora la riflessione sulla satira diventa obbligatoriamente e necessariamente fastidiosa: perché insultare Maometto o disegnare lo Spirito Santo che inchiappetta Cristo che inchiappetta Dio (un’altra famosa copertina di Charlie Hebdo) è considerato espressione legittima di libertà e civiltà, mentre disegnare, per esempio, un politico nero con la faccia da scimmia e una banana in mano, oppure un ebreo con naso adunco, tanti soldi e i protocolli di Sion sottobraccio, è segno di vile razzismo e antisemitismo? Oppure, perché prendere in giro gli omosessuali disegnandoli come mignotte che lo prendono in culo, o prendere in giro una ministra alludendo alle sue prestazioni sessuali, o prendere in giro gli italiani che con il terremoto vedono la loro casa trasformata in lasagna è segno di omofobia o sessismo o insensibilità, e tutti protestano anziché felicitarsi con gaudio per l’espressione di civiltà e libertà rappresentata dal satirico che dice che la ministra è lì perché sa fare ‘certi lavoretti’, e gli omosessuali sono malati di mente, e i neGri sono esseri inferiori e gli ebrei sono una razza di avidi complottisti e gli italiani incapaci di fronteggiare le calamità? Perché invece, quando la vignetta riguarda la religione musulmana o quella cristiana, insultare in modo parossistico e continuativo Dio e i suoi fedeli è considerato da tutti (fedeli esclusi, ovviamente) un esercizio di libertà sacrosanto e da salvaguardare? Ci sono forse categorie intoccabili? E se sì, in base a cosa quelle “toccabili” vengono toccate? Forse che la satira non è altro che l’espressione ridanciana di un certo conformismo sociale?

Sono domande, non risposte, che inevitabilmente emergono quando gli stessi che fanno commenti positivi verso le vignette satiriche su Allah e i simboli di quella religione chiedono (e ottengono) la condanna penale, nella “libera” Francia, di un autore satirico come Dieudonné che prende in giro gli ebrei. Nella sua tragicità, la strage di Charlie Hebdo ha inevitabilmente sollevato anche queste questioni, obbligando a trasferire su livelli più complessi la riflessione sulla satira e sui suoi confini. Che poi, di principio, la satira confini non ne dovrebbe avere. Eppure, ogni autore sa bene che i suoi strumenti di lavoro principali non sono solo la penna o la parola, ma anche la censura e l’autocensura. E’ la satira del XXI secolo. Anzi, è lo stato della satira dei nostri giorni. A Satura, spero, il compito di guidarci, con un occhio al glorioso passato e un altro all’incandescente presente.

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