
Come raccontare la Palestina in pochi minuti? In questi giorni ha luogo un festival di cortometraggi che ha al suo centro la rappresentazione della Palestina, attraverso fiction, documentari e altri generi (animazione, videoarte, video musicali). Il Nazra Palestine Short Film Festival è itinerante, direi nomade, e dopo la prima tappa di Venezia (in cui sono stati assegnati i 5 premi ufficiali di cui dirò più sotto), sta attraversando, nell’ordine, Firenze, Roma, Bologna e Napoli, prima di chiudersi a Gaza, Gerusalemme e Ramallah, andando cioè a portare la rappresentazione nel luogo della realtà. A promuoverlo sono AssoPace Palestina e Associazione Restiamo Umani con Vik, in collaborazione con altre associazioni (Anémic di Firenze, École Cinéma di Napoli, Centro Italiano di Scambio Culturale Vik di Gaza, ArtLab di Gerusalemme e FilmLab: Palestine di Ramallah). Di questa prima edizione del festival sono formalmente il “direttore artistico”, funzione che ho condiviso con Franca Bastianello e Luisa Morgantini, le altre anime della manifestazione, e un comitato di selezione: ecco, dunque, qualche riflessione, un po’ da “direttore” e un po’ da spettatore.
In arabo Nazra significa sguardo, ed è da lì che bisogna partire. Perché uno degli snodi principali della questione palestinese sta proprio nel come la si guarda: se, cioè, dal punto di vista della propaganda degli oppressori, dal punto di vista della comunità internazionale che reclama un ruolo di equidistanza fingendo di non vedere le violazioni del diritto internazionale e dei diritti umani, o dal punto di vista di chi vive la condizione di oppressione. Dunque, ripartiamo dallo sguardo. Ossia da come i palestinesi decidono di guardare sé stessi e la loro realtà e da come decidono di offrirla allo sguardo degli altri. E da come i non palestinesi osservano quella realtà dopo aver cercato di superare i pregiudizi e esserne entrati in diretto contatto. Un moltiplicarsi di sguardi destinato ad arrivare allo sguardo ultimo, quello dello spettatore, invitato non solo a osservare, ma – in qualche modo – ad agire, sia pure in un’azione di messa in discussione di quanto già conosce o crede di conoscere.
Dal momento del lancio del bando di Nazra sono arrivati oltre 70 cortometraggi in regola con i requisiti (ma molti di più, purtroppo non ammissibili, in base ai criteri), che hanno dimostrato l’esistenza di una ricchissima produzione audiovisiva dalla e sulla Palestina. Divisi in diverse sezioni (fiction, documentario, sperimentale), a loro volta divise tra opere di autori palestinesi e internazionali, questi ‘piccoli’ film raccontano storie, eventi, persone, temi, ma soprattutto emozioni, tutte importanti e che con rammarico abbiamo dovuto selezionare. Al festival sono così approdati 24 film: un ventaglio non esaustivo, ma estremamente vario, nei linguaggi e negli argomenti. La giuria internazionale, composta da autori palestinesi (Mohammad Bakri, Sahera Dirbas, Naim Mahmoud Al Khatib e Jamal Abu Al Qumsan) e italiani (Andrea Adriatico, Luciana Castellina, Monica Maurer e Massimo Vattani), ha assegnato 5 premi ai migliori corti nelle varie sezioni, a cui si aggiungeranno in altre città del festival ulteriori premi assegnati dagli studenti o da giurie popolari.

Tra i documentari di autori palestinesi spicca la fotografia delle condizioni di disperazione soprattutto umana e sociale in cui vive la popolazione della Cisgiordania, obbligata allo stallo e alle vessazioni: in To my mother di Ahmad Al-Bazz e Yaser Jodallah (2014) seguiamo la vicenda esemplare (nel senso che spesso è comune) di una famiglia che vede finire in prigione i suoi componenti uno dopo l’altro; in War binder di Malik M. Y. Sunoqrot (2017) veniamo a conoscere l’attivista che ebbe la ventura di filmare l’uccisione a sangue freddo, con un colpo alla testa, di un ragazzo palestinese ferito da parte di un soldato israeliano, e che, dal momento in cui il suo video fu visto in tutto il mondo e divenne prova lampante dei crimini dell’esercito, è bersagliato dalle minacce (è di ieri la notizia che il soldato in questione, osannato dalla maggioranza degli israeliani come eroe e condannato a solo 18 mesi, riceverà un formidabile sconto di pena che gli consentirà di uscire in poco tempo); in Naked dreams di Ramzi Maqdisi (2017) sono invece due bambini a parlare di sé, dei loro desideri, delle loro speranze e della loro rassegnazione; mentre Shujayya di Mohammed Almughanni (2016) ci porta dentro Gaza e dentro il terribile bombardamento del 2014, che rase al suolo interi quartieri, distruggendo non solo gli edifici, ma anche le relazioni, tra cui quella tra un marito e una moglie che nel crollo della casa ha perso le gambe e ora è ripudiata.
A vincere è stato Mate superb di Hamdi AlHroub (2013), che racconta la storia di un gruppo di ragazzi palestinesi di Gerusalemme che, come tanti in tutto il mondo, sono appassionati di parkour. Ma non è solo questo: il film è soprattutto una storia di resistenza contro l’occupazione fatta attraverso questa forma di riappropriazione antagonista degli spazi urbani. Il documentario ci trascina, con un ottimo ritmo del montaggio e la vivacità delle riprese, tra i tetti della Gerusalemme occupata e la grande Porta di Damasco, dove i ragazzi protagonisti sognano di esibirsi. Ma qui non siamo nella piazza di una qualsiasi capitale europea: qui il parkour è proibito ai giovani palestinesi e, soprattutto, questi giovani praticano questa disciplina non solo come scelta di vita e vitalità, ma anche come affermazione politica della loro esistenza, della loro resistenza e della resistenza dei tanti detenuti politici palestinesi nelle carceri israeliane a cui i loro salti acrobatici sono dedicati. Insomma, allenarsi per il parkour può essere anche un atto di lotta e libertà, contro ogni muro e ogni oppressione.

Più articolata la scelta tematica della sezione di docufilm internazionali. Anche qui torna lo sguardo sui giovani con l’italiano Break the siege di Giulia Maria Giorgi (2015), che dà conto del progetto Hip Hop Smash The Wall che, sotto l’egida di AssoPace Palestina, ha unito rappers, breakdancers e writers italiani e palestinesi per condividere musica e danza come strumenti di resistenza e pace. Objector della californiana Molly Stuart (2017) racconta altri giovani, dall’altra parte del Muro della vergogna, e in particolare una ragazza israeliana che si è rifiutata di fare il servizio militare per protestare contro l’occupazione israeliana della Palestina, e che seguiamo negli ultimi giorni prima di essere messa in prigione. The pianist of Yarmouk dell’inglese Vikram Ahluwalia è un’intervista a un altro giovane, Aeham Ahmad, diventato famoso tre anni fa quando, nel campo profughi palestinese di Yarmouk in Siria, fu filmato mentre suonava il piano tra le rovine: di lui il corto racconta il seguito della storia, con poetici inserti animati.
Ma a vincere è stato High hopes dell’israeliano Guy Davidi (2015), che nel 2013 ricevette la nomination agli Oscar per il notevole documentario 5 Broken Cameras di cui era co-regista con Emad Burnat. High hopes è il racconto di una sconfitta – quella dei negoziati di pace – attraverso lo svelamento dell’inganno della propaganda, grazie al recupero attento di immagini rigorosamente di repertorio, sapientemente scelte e montate. Le “alte speranze” del titolo (e della canzone dei Pink Floyd esplicitamente citata e gentilmente concessa dal gruppo musicale), indotte dagli accordi di Oslo, si infrangono impietosamente con ciò che accade negli stessi giorni: il furto delle terre palestinesi da parte degli occupanti israeliani, la violenza sulle popolazioni e in particolare l’evacuazione forzata e illegale di un clan di beduini dai loro poveri insediamenti, cioè una storia apparentemente marginale e minimale, ma emblematica, che nella marginalità dell’episodio mette in rilievo l’arroganza e l’impunità di quei comportamenti che sono pane quotidiano nei territori occupati. Bellissimi gli spezzoni d’annata, nei quali possiamo rivedere una figura carismatica come Edward Said, con da una parte i proclami dei politici e dall’altra la crudezza dei fatti, in un montaggio intelligente e incalzante che rende il parallelismo impietoso, suggerendoci di riflettere anche sulla propaganda odierna.

Ancora più articolate le fiction, che inaspettatamente (ma non troppo, conoscendo lo spirito di questo popolo) distingue i sofferenti corti internazionali da quelli spesso più leggeri e ironici o autoironici dei palestinesi. In Oceans of Injustice (2016) il canadese Bruno De Champris, ex campione sportivo e ora videomaker di stanza negli Emirati Arabi, offre la sua visionarietà epica all’intensità emotiva delle parole di Farah Nabulsi, che rievoca – come dice il titolo – tutte le ingiustizie sofferte dal suo popolo. Setback of the spirit del saudita Sa’ed Arouri (2017) è invece il racconto tutto intimo e profondo dei sentimenti di un’anziana che torna nella casa che dovette abbandonare nel 1967 all’epoca della Naksa, l’invasione della Cisgiordania.
Il corto vincitore della sezione internazionale della fiction ci riporta, però, a Gaza. One minute della kuwaitiana (di origine palestinese) Dina Naser (2015) decide di raccontare qualcosa di umanamente troppo atroce per essere raccontato: l’ennesimo e più devastante bombardamento di Gaza. E lo fa scegliendo la strada del buio. Il buio reale di una madre che nella notte cerca salvezza con il neonato, nello spazio sicuro della casa diventato improvvisamente uno spazio claustrofobico e minaccioso; ma anche il buio che allude alla notte delle coscienze e dell’umanità, in uno scontro – che non si può vedere ma solo vivere con l’emozione e la partecipazione umana – tra chi implora con la sua stessa vita “Restiamo umani” e l’apocalisse della pura violenza e sopraffazione dei più deboli. La regista riesce a creare una sconvolgente partitura visiva in cui luce e buio cambiano continuamente di statuto – ora rassicuranti, ora spaventosi – e un’altrettanto sconvolgente partitura sonora, come una straziante sonata per voci, pianti, suonerie e bombe.

Le bombe su Gaza sono presenti anche nella sezione fiction di autore palestinese. Incalzante nella sua claustrofobia e nelle sue domande, Paper boat di Mahmoud Abu Ghalwa (2016) ci porta in un rifugio antibomba in cui una giovane coppia si interroga se in quelle condizioni sia giusto far nascere una nuova vita. Altrettanto claustrofobico e insinuante per le domande poste è l’altra fiction riguardante Gaza, dal titolo fin troppo evidente di quella realtà: No exit di Mohanad Yaqubi (2014), strutturata come un dialogo dai toni teatrali, quasi beckettiani, per l’attesa infinita di una soluzione che non arriverà, collocato nell’ambiente allusivo di un’immaginaria fermata d’autobus a Londra. Ma dicevo prima della grande capacità di ‘leggerezza’ dei palestinesi, che negli altri corti in concorso hanno proposte piccole commedie capaci di divertire e far pensare. Come Madam El di Laila Abbas (2016) che racconta i ‘maneggi’ attorno all’antica statua trovata da due ragazzini tombaroli: un film spiritoso, scanzonato e intelligente sull’età dell’infanzia, ma anche sullo stallo sociale palestinese. O come Villagers dell’attore di stand-up comedy Nidal Badarny (2015): un raffinato e spassoso gioco meta-cinematografico e tragicomico sui destini della Palestina e della sua rappresentazione, che arriva a riecheggiare le atmosfere pasoliniane de La ricotta.
O come Ave Maria (2015), il cortometraggio vincitore (che, peraltro, nel 2016 ha ricevuto la nomination agli Oscar). Il film, diretto da Basil Khalil, racconta lo scontro e l’incomunicabilità con le armi della garbata ironia. L’incontro tra le suore cattoliche e la famiglia di coloni ebrei in una terra di confine, descritta come una waste land sospesa tra sogno e realtà, riesce a coniugare l’arguzia di un racconto impregnato di freschezza narrativa e humor con l’allusione al conflitto in Palestina. Prima, il trauma cruento della rottura della statua della Madonna porta alla “occupazione” del pacifico convento-isola-oasi, dove la pace trionfa come in un’utopia onirica; poi si confrontano gli irrigidimenti ideologici dei malcapitati ospiti e la sagacia di chi è abituato da tempo a vivere nel silenzio e nell’attesa di un paradiso; e infine si assiste alla ricomposizione dello stato precedente… Una parabola più politica che evangelica: una sottile allusione alla situazione palestinese, che però non rimane arida, ma si presenta come un racconto divertente e beffardo, insomma vero cinema.

Folgorazioni visive e slanci poetici capaci di rapire e commuovere lo spettatore si alternano nella sezione più affollata: quella dei corti sperimentali. Solo un’opera palestinese è presente in quest’area: World on fire (2016) dell’autrice più giovane di tutto il festival, la ventunenne Juman Daraghmeh, è un’opera di videoarte che assembla vorticosamente immagini di violenza e distruzione. My extraordinary homeland dell’italiano Valerio Nicolosi (2015) è invece l’efficace video musicale su un brano del rapper MC Gaza, che ci porta – tra le acrobazie dei 3Run Parkour – nelle strade, nei paesaggi e tra le macerie di Gaza. Molto originale è The bus trip della svedese Sarah Gampel (2016), in cui la giovanissima autrice ebrea racconta il suo viaggio rivelatore in Palestina, che si trasforma in un emozionante viaggio interiore nella memoria del padre. Questo corto usa a tratti l’animazione, che nei restanti film in concorso è risultato il linguaggio dominante. Black tape degli israeliani Michelle e Uri Kranot (2014) è la breve e folgorante rappresentazione del conflitto come un tango, composto dalla rielaborazione grafica di video di ong che documentano i soprusi di militari e coloni. Ayny, my second eye del saudita di origine palestinese Ahmad Saleh (2016) è la bellissima, struggente storia, in stop-motion, di due ragazzini che sognano di suonare l’oud ma rimangono menomati per lo scoppio di una mina. All’ultimo bombardamento di Gaza (che è davvero uno dei fili rossi di questo festival) ci riporta One Day in July dell’italiano Hermes Mangialardo (2015), che rievoca, con tratti del disegno delicati e carichi di emozione, la deliberata uccisione di quattro bambini sulla spiaggia di Gaza.
Al ricordo dei bambini uccisi deliberatamente è dedicato anche il corto di animazione vincitore di questa sezione. Entr’acte dell’iraniano Seyed Mohammad Reza Kheradmandan (2016) riesce a rappresentare ciò che va oltre l’immaginazione: l’uccisione di un bambino da parte di un cecchino, che ricorda l’affermazione (vera!) di un soldato israeliano che durante l’attacco a Gaza si vantò di aver ucciso 13 bambini palestinesi in un giorno solo. Con un emozionante tratto del disegno, drammaticamente violento e delicatamente struggente, ci porta fino alle soglie del pensiero del militare e del suo breve dubbio di coscienza. Ma questo corto d’animazione, che non può lasciare indifferente lo spettatore, è anche un rebus sottile, che parte dalla cronaca di Gaza, recupera il poetico corto di Albert Lamorisse Le ballon rouge nonché il rapporto tra bianco e nero e colore di Schindler’s list di Spielberg (come a denunciare il ribaltamento delle persecuzioni dei bambini dai tempi della Shoah), arrivando fino alla citazione della bambina sollevata dai palloncini disegnata da Banksy sul muro della vergogna: un percorso di riferimenti e citazioni che non appesantisce, ma anzi impreziosisce la narrazione in modo intelligente e suggestivo.
Nazra Palestine Short Film Festival
Venezia, 27-29 settembre 2017
Firenze, 30 settembre-1 ottobre 2017
Roma, 6-8 ottobre 2017
Bologna, 10-15 ottobre 2017
Napoli, 19-21 ottobre 2017
Gaza, novembre 2017
NAZRA_catalogo (scaricabile in pdf)