Il nuovo romanzo di Angela Nanetti, Il figlio prediletto, ha una qualità speciale. E’ un romanzo intriso di dolore, di dialogo con la morte (quasi sempre feroce e ‘ingiusta’), di malinconia profonda e irriducibile, eppure accompagna i due protagonisti in un viaggio in cui la vita (e la speranza che in qualche modo la sostiene) è sempre un po’ più forte della morte (spesso violenta) o – quel che è peggio – della resa, che ti sembrano trascinare ogni momento verso il nulla. Il libro inizia con un crudele e orrendo omicidio consumato in poche righe e finisce in un cimitero in un dialogo con i morti, e dentro ci stanno tanti dolorosi inciampi: eppure… eppure il sentimento del lettore è quello di una progressione di speranza, l’invincibile ottimismo di chi nonostante tutto continua a vivere, di chi va avanti con le cicatrici nel cuore, archiviate come pagine irrinunciabili dell’esistenza, ferite sì ma anche petali di un fiore che vale la pena coltivare. Il senso di soffocamento dei protagonisti per le loro condizioni arriva al lettore rarefatto dalla fiducia che la vita nonostante tutto possa riservare un futuro tutto da scoprire. Anche se già nelle prime pagine è annunciata la morte giovane di uno dei due protagonisti di cui ci apprestiamo a scoprire la storia.
Il romanzo inizia con una scena tanto fulminea (3 pagine) quanto sconvolgente. Due amanti diciannovenni, Antonio e Nunzio, sono appartati in macchina durante la notte, quando all’improvviso alcuni uomini trascinano fuori dall’auto Antonio e lo uccidono barbaramente. Siamo in Aspromonte nel 1970 e, come si capirà poi, quell’omicidio era stato voluto dalla famiglia di Nunzio, per evitare il disonore e lo scandalo di un amore omosessuale. Subito dopo veniamo a sapere che Nunzio morirà a Londra nel 1985, a 34 anni, dopodiché inizia il racconto del suo esilio inglese, scandito da incontri, passioni e altre morti. Lo seguiamo mentre passa dal calcio immediatamente abbandonato all’inevitabile ruolo di cameriere calabrese immigrato, dalla scoperta del marxismo (ma non è un romanzo di formazione politica!) a quella della dote fotografica, dall’amicizia amorosa con un nobile che ha ripudiato la sua casta all’erotismo di alcuni artisti dichiaratamente gay, fino all’esito mortale annunciato che arriva, rapido e beffardo, senza che mai Nunzio abbia potuto tornare una sola volta al suo paese.
La sua storia si interseca con quella della nipote Annina, al giorno d’oggi, cresciuta con l’assenza presente dello zio Nunzio, rimosso dalla famiglia in odor di ’ndrangheta ma presente per la nonna che lo piange sempre sulla sua tomba (e di cui è – appunto – “il figlio prediletto”). Annina è una ribelle, anzi no: è semplicemente una ragazza che vuole affermare la propria libertà e dignità, che vuole sfuggire dal paese e dalla famiglia, magari inseguendo un desiderio come quello di fare teatro, cosa che le costerà il rapimento e la tortura da parte del suo stesso padre (che era poi il fratello di Nunzio e suo carnefice). Ma poi riesce a fuggire, ad andare in quella Londra già percorsa dallo zio che da lì era tornato solo morto quando lei era bambina. Lui mandato in esilio dalla famiglia che lo disprezzava, lei fuggita in esilio volontario da quella stessa famiglia che voleva addomesticarla. Ancora Londra, ancora esperienze di amore e di dolore, ma soprattutto la ricerca di tracce dello zio, in un’esplorazione niente affatto investigativa, ma morbidamente spinta da rade coincidenze.
Le due storie si alternano, obbligando il lettore a tessere inevitabili fili tra di esse, per consonanza e dissonanza, ma soprattutto sballottando temporalmente il lettore, che alla fine si trova in balia non di una semplice storia, ma di una modalità narrativa: oggetto del romanzo è non solo ciò che è raccontato, ma il come viene raccontato, cioè portando il lettore a inseguire solo per brevi tratti ciascuno dei due protagonisti, per abbandonarlo spesso in sacche di non detto o in sospensioni in cui entra l’altra storia. Non c’è spazio per una calata in profondità emotiva dentro ciascun filo narrativo. Vietato lasciarsi travolgere dall’emozione o dalla commozione (come già le 3 sconvolgenti pagine iniziali, su cui un altro narratore avrebbe potuto infiorettare a lungo, lasciano capire bene): quelle ci sono, e potenti, ma rimangono sempre come sospese o diluite. Il dolore è troppo forte per poterlo condividere nella narrazione… ma tu lettore, forse anche tu lo conosci, e allora possiamo passare oltre, sembra dire Angela Nanetti quando si sta per raggiungere il picco emotivo.
Poi, certo, dentro questo agile romanzo (30 brevi capitoli in poco più di 200 pagine) c’è tanto e ci sono tanti argomenti importanti, di cui si potrebbe parlare a lungo: l’omofobia e l’affermazione dei diritti lgbt, l’emigrazione e la lotta di classe, la violenza di genere e l’affermazione dei diritti della donna, il meridione… Così come sono presenti altri temi determinanti più generali: l’essere straniero e lo sradicamento, la ricerca di sé, l’ineluttabilità del destino. Insomma, si tratta di un libro che dialoga con il lettore con una notevole delicatezza di scrittura, attraverso la quale emergono le complessità del presente così come le complessità dell’essere umano. Ma se devo consigliare la sua lettura lo faccio soprattutto per quel che ho percepito maggiormente, per quel che più mi è rimasto: lo struggente (ed emozionante) senso di equilibrio tra l’esperienza del dolore, della sconfitta e della morte violenta da una parte e, dall’altra, una malinconica ma ferma volontà di vita che ha la meglio sui tanti momenti di disperazione e ci sostiene a dispetto del destino (e senza che questo diventi “la morale” del romanzo).
Angela Nanetti, Il figlio prediletto, Vicenza, Neri Pozza, 2018, pp. 234, euro 17.