C’era un tempo in cui agli omosessuali italiani veniva stravolta la vita, nel fisico e nello spirito, con la condanna al confino. Oggi dalle nostre parti si stravolge la loro vita pestandoli, insultandoli, cercando di spingerli all’autolesionismo o al suicidio. Siamo migliorati? Sì, perché oggi non c’è alcuna legge esplicitamente omofoba. Ma non ce n’era neanche allora, nel ventennio fascista. Siamo migliorati? No, perché oggi non c’è alcuna legge che condanni gli atti violenti motivati da omofobia. Accontentiamoci della sacrosanta “libertà”. Accontentiamoci delle sacrosante unioni civili. Accontentiamoci di essere tollerati, nell’attesa che nuovi beceri fascisti mascherati da pii benpensanti aumentino di numero, mettendo in pericolo le poche conquiste ottenute. Ma il punto è che quella rivoluzione culturale che i nostri fratelli e le nostre sorelle avevano immaginato negli anni ’70 non c’è stata. C’è stato solo l’adeguamento della categoria “omosessuale” (e in ancor minima parte “transessuale”) ai modelli utilitaristici che hanno guidato le “aperture” dei diritti da parte del Potere. Ma di fatto, nel profondo, la nostra cultura è ancora troppo intrisa di omofobia: omofobia che gira in tandem col sessismo. La rivoluzione culturale non c’è stata: c’è stato solo il riconoscimento dell’utilità di ‘sdoganare’ gli omosessuali (e a malapena i transessuali) all’interno di una società interessata a monetizzare qualsiasi cosa, anche i “pervertiti” obtorto collo. Cari attivisti, vi do questa notizia: non abbiamo vinto. Siamo solo riusciti a ottenere alcune conquiste, le più convenienti per il sistema. Ma il senso vero e profondo del movimento è ancora tutto in piedi. Dobbiamo ricominciare.
Non so perché mi sia venuto in mente tutto questo dopo aver visitato al Cassero di Bologna la mostra Adelmo e gli altri, curata da Agedo Torino. In fin dei conti, lì si parla di un altro mondo, davvero: si parla del destino di ragazzi e uomini omosessuali, mandati al confino oltre 75 anni fa, quando un regime dittatoriale piegava non solo la libertà sessuale e l’identità dei “diversi”, ma anche altre libertà e altre identità. Forse perché, leggendo le loro storie, scrutando quei volti, non sono riuscito a pensare che se fossero vissuti oggi sarebbero stati molto meglio. Sì, di certo non avrebbero vissuto il confino, cioè la perdita della libertà per il semplice fatto di aver avuto relazioni sessuali con altri uomini. Ma mi chiedo se, in questi 75 anni e oltre, tutto quel pregiudizio e quella persecuzione di cui sono stati vittime siano svaniti o piuttosto non sopravvivano, nelle pieghe di una società “aperta” e democratica, pronti a colpire in vario modo: nel dileggio, nel bullismo, nella discriminazione, nelle azioni di violenza segnalate in maniera impressionante e sempre più incalzante in queste ultime settimane, con episodi di pestaggi omofobi a Roma, Milano, e perfino nella apertissima Bologna. Quanto è cambiata la mentalità – no, scusate: quanto è cambiato il sentire profondo riguardo alla possibilità di riconoscere in ciascun uomo, in ciascuna donna, in ciascun e ciascuna transessuale, ecc ecc, un essere umano unico e irripetibile, e perciò diverso, alla pari di tutti gli altri miliardi di diversi che vivono su questa terra?
Ma poi penso anche che non c’è libertà della propria identità senza la libertà di tutti e tutte. E allora non riesco a cancellare dalla mente la similitudine delle foto delle schede segnaletiche di Adelmo e gli altri dalle attuali fotografie di rom o migranti: altre due “categorie” (che brutto dover ricorrere a un termine di per sé fastidiosamente anti-umano) che non a caso hanno rappresentato ulteriori bersagli del fascismo, come “razze” da estirpare, e che oggi sono nuovamente al centro di altrettanti razzismi. La lotta per la sconfitta di questi razzismi vecchi/nuovi si salda o si dovrebbe saldare con quella contro il sessismo e l’omofobia: se non capiamo che il problema non è picchiare il frocio o il negro, ma picchiare (o ‘solo’ discriminare mantenendo le mani pulite) un altro essere umano sulla base di uno stereotipo o di un pregiudizio, allora a che servono i nostri movimenti? E a che serve un movimento per i diritti lgbt che ignora la richiesta di diritti umani e civili e libertà che viene dal popolo palestinese sotto occupazione, apartheid e pulizia etnica? O dal popolo saharawi? O mapuche?
Troppi pensieri caotici attorno ai volti catatonici e impauriti dei giovani e degli adulti mandati al confino fascista nei primi anni ’40. Eppure si tratta di “piccoli” uomini, persone a cui nessun libro di storia dedicherebbe neanche una nota a piè di pagina, e che oggi vedono il loro nome (ma non cognome) e il loro viso sui pannelli di una mostra che spero davvero possa girare in tutta Italia. Le didascalie raccontano “piccole” biografie frammentarie che lasciano intravedere vite irriducibili all’unico episodio che le ha riportate alla luce, e cioè la persecuzione giudiziaria. Sono vite di studenti, commercianti, perfino fascisti militanti, la cui vita quotidiana, i cui pensieri, le cui passioni, cerchiamo inutilmente di intuire dietro la freddezza del casellario giudiziario. Tutti mandati al confino non solo per atti omosessuali (magari con contorno di prostituzione, ricatto, rapina…), ma anche perché gente di mezza tacca, poveracci senza troppi santi in paradiso, sui quali questori e magistrati vari hanno potuto sfogare la loro voluttà persecutoria. Un’ondata di presunta moralità, che nascondeva soprusi di classe o rese dei conti.
C’è Adelmo l’operaio, ha 18 anni, e ha cominciato le sue esperienze omosessuali a 14 anni frequentando i giardini pubblici romani, il cinema Massimo e il Brancaccio, cercando uomini sulla trentina e legandosi con Claudio, anzi Claudetto: “come una vera e propria meretrice – si legge sul rapporto di polizia – s’intratteneva anche nelle vicinanze di caserme, non è capace di reprimere la sua perversa libidine”, e dunque è “socialmente pericoloso” e condannato al confino. E poi c’è Aldo il mercante d’arte veneziano. C’è Antonino il muratore catanese. C’è Catullo il tipografo mantovano senza fissa dimora. C’è Cosimo il sarto tarantino. C’è Elio il ceramista fiorentino. C’è Ernesto il bancario torinese. C’è Giuseppe lo studente romano. C’è Italo il contrabbandiere della Valtellina. C’è Leonida il comunista e c’è Antonio il legionario fascista. E ancora, e ancora… Una Spoon River in cui è difficile ricostruire i sentimenti: i freddi burocrati della polizia non avevano la qualità di Edgar Lee Masters, e a noi sono arrivati solo volti offesi ma pieni di dignità, ed epiteti usati come insulti infamanti: pervertiti, pederasti, sodomiti, con aggettivi di contorno come “turpi” o “immondi”.
Adelmo e gli altri vengono riconsegnati ai nostri occhi attraverso l’episodio che forse avrebbero voluto tenere più nascosto: oggi sono nuovamente tra noi perché vittime di un’ingiustizia, in qualche modo ‘riabilitati’, sia pure in una prospettiva storico-culturale e non giudiziaria. Ma è difficile riconoscersi in essi. Invano il visitatore si specchia in loro e loro in noi. Sì, qualcuno forse avrà avuto un suo, tutto personale, orgoglio di essere quel che era, ma sarebbe stato comunque un orgoglio ben diverso dal nostro “pride”. Sono reperti di una storia lontana anni luce dalla nostra, eppure dannatamente vicina, e dunque memoria attiva da coltivare perché questo non accada più. Eppure accade. I volti degli omosessuali russi imprigionati nei loro paesi, degli omosessuali pakistani in carcere a vita, degli omosessuali ai lavori forzati in Mozambico, degli omosessuali giustiziati in Iran si confondono con quelli di Adelmo e gli altri. Le loro storie svanite nel fiume della storia si confondono con quelle di ragazzi anonimi dalla vita spezzata, rimasti solo come numeri di un’orrenda statistica.
Allora la mostra Adelmo e gli altri non è più solo la rievocazione di una memoria che dovrebbe essere condivisa nella coscienza nazionale, e a maggior ragione in quella dei giovani gay degli anni duemila, avvezzi a Grindr, spavaldamente esibizionisti in selfie rainbow o più semplicemente consapevoli dei loro diritti e di una fitta rete di luoghi e associazioni ‘friendly’. Questa piccola, fragile, ma orgogliosa mostra è, più o meno inconsapevolmente, lo snodo concettuale dell’ultimo secolo di storia omosessuale, dei nostri affanni e dei nostri orgogli, delle nostre rivendicazioni e delle nostre sconfitte, facendoci percepire in maniera distinta come la nostra lotta per i diritti e la libertà sia una lotta di tutti e per tutti i diritti, in tutte le condizioni e in tutti i luoghi: nella classe della scuola media dove il ragazzino più delicato è spinto al suicidio o nella màdrasa afgana dove qualcuno decide di castrare la propria vita per paura, sulla Route 66 dove qualche famiglia spinge il figlio gay nelle mani di presunti medici per ‘guarire’ o in una fabbrica europea dove una persona transessuale viene mobbizzata e licenziata, in un villaggio nigeriano dove una lesbica viene costretta a subire violenza sessuale o ancora nel nostro Bel Paese dove il confino no, non esiste più, ma se sei omosessuale e vivi in una famiglia che non ti riconosce per quel che sei e in un ambiente sociale di derisione, ostracismo o violenza, allora il confino è meglio che te lo cerchi da solo, stavolta non in un paesino sperduto del materano ma ‘nascondendoti’ in una grande città, dove puoi essere quel che sei, o almeno sperarlo.
Adelmo e gli altri. Confinati omosessuali nel Materano, mostra fotografica e documentaria a cura di Cristoforo Magistro – Agedo Torino, con la collaborazione di Centro di Documentazione “F. Madaschi, Agedo Bologna, Peopall Cassero LGBT Center, Comitato Provinciale ANPI Bologna, con il patrocinio di Comune di Bologna – Ufficio Pari Opportunità e Tutela delle Differenze. Iniziativa nell’ambito del Patto generale di collaborazione per la promozione e la tutela dei diritti delle persone e della comunità LGBTQI nella Città di Bologna.
Bologna, Cassero LGBT Center, 23 aprile-5 maggio 2018.
ADELMO E GLI ALTRI catalogo (scaricabile in pdf)