Il film di Pasolini Uccellacci e uccellini si apre con un’ammiccante pseudo-citazione: “Dove va l’umanità? Boh! (succo di un’intervista di Mao a mr. Edgar Snow)”. Quel che poi si vede ne è la traduzione in pellicola: il cammino senza apparente meta di due sradicati della modernità e dell’ormai trionfante borghesizzazione in un’Italia orfana di ideologie e di idealità (e ci sarebbe da riflettere su quanto quel film di oltre 50 anni fa sia attuale, ma andremmo un po’ troppo fuori tema). In quello stesso 1966 esce un altro film altrettanto ‘vagabondo’, L’armata Brancaleone di Monicelli: altro viaggio oscillante tra tensione volitiva e svacco cialtrone, specchio di un’altra umanità che si illude di sapere dove andare, ma calpesta i soliti lidi con immutabile insipienza. Due road movie appiedati, dove la polvere di strade secondarie accompagna l’inutile girovagare di piccole persone in mezzo ai grandi mutamenti storici, siano questi l’epocale svolta dell’anno Mille o l’altrettanto epocale trionfo della borghesia consumista.
Mi sono venuti in mente questi due film mentre guardavo In girum imus nocte et consumimur igni di Roberto Castello, ossia l’epifania di figure che sembrano uscite da un medioevo stilizzato e camminano camminano camminano verso il nulla: un romanzo picaresco distillato, senza storia e senza avventura, in cui è rimasto solo un inutile andare, cioè un altrettanto inutile stare. Un’armata Brancaleone senza crociate, Totò e Ninetto senza il corvo: insomma, l’umanità contemporanea di fronte all’orizzonte vasto del nulla che sembra incombere dal futuro prossimo.

Lo spettacolo è una serie di brevi pezzi in cui quattro figure in nero camminano, senza realmente arrivare da qualche parte: un falso movimento in cui i passi sono pesanti e strascicati, un andare che è uno stare. Alzano raramente lo sguardo, forse perché non hanno un obiettivo o forse perché, bastonati dalla vita, hanno imparato ad andare avanti senza levare la testa, con le spalle curve, trascinandosi senza volontà. Da una microscena all’altra si sgranano e si ricompattano, si incontrano e scontrano, si perdono e si sorpassano. Il loro movimento attraversa la pantomima, la biomeccanica, tocca il teatro fisico e la danza, sembra sovrapporsi e reinterpretare il classico medievale della danza della morte (riportando alla mente anche la scena finale del Settimo sigillo di Bergman). A tratti l’effetto è quello di un gruppo di appestati, di esseri quasi bestiali, di zombi o di dannati danteschi obbligati per l’eternità a un cammino autoreferenziale. Sono vivi e sono morti al tempo stesso. Una “umanità” che sembra aver perso il senso stesso della parola. L’umanità contemporanea?
Il titolo stesso rimanda al corto circuito fra vita e morte: la vitalità di un errare notturno e la fatalità di una fine ineluttabile e forse già avvenuta, perlomeno spiritualmente. Il titolo palindromo In girum imus nocte et consumimur igni suona come un mantra, come un’introduzione quasi puramente fonetica, ipnotica e un po’ magica, a uno spettacolo che andrebbe ‘preso’ proprio come si prende questa frase così insinuante ed evocativa: “fonetico”, ipnotico, magico. Se il possibile significato della famosa espressione latina è quello delle falene (giriamo in tondo la notte e siamo consumati dal fuoco), quello che si vede in scena è proprio questo girare a vuoto verso un fato distruttivo. O forse è il cammino stesso a ‘consumare’ le persone: da quanto tempo sono in viaggio e per quanto ancora?
La frase del titolo fa fulcro su una parola chiave: “nocte”. Quello di Castello e dei suoi inesausti quattro performer è uno spettacolo notturno. Uno spettacolo in bianco e nero, dove i colori sembrano essere evaporati da tempo. Anzi, più nero che bianco. Dal buio iniziale una voce dall’esterno chiama “light”. Si accende la luce e inizia una microscena, una delle tante e innumerevoli variazioni del cammino incessante e vano, accompagnata da un microscopico brano sonoro elettronico-metallico ripetuto in loop come fosse una partitura minimalista. La voce, dalla funzione beckettiana, ordina “dark” e il buio cala. E così via, in una sequenza implacabile di buio-silenzio e piccole scene in luce, in cui l’ossessivo tappeto sonoro sempre identico sostiene l’ossessivo moto immoto. Beckettiano anch’esso, verrebbe da dire: un atto senza parole, che è mimica e danza e teatro al tempo stesso, per raccontare lo stallo della vita e lo stallo della Storia.
Ogni microscena è caratterizzata da una diversa ridefinizione dello spazio visivo tramite riquadri luminosi e lattiginosi che ritagliano il campo in rettangoli sempre differenti che inquadrano i nostri andanti, come tasselli di un possibile mosaico o puzzle della nostra umanità. E in ogni riquadro luminoso, una sorta di neve scende incessante, una pioggia eterna dall’immaginario naif e dal sapore dantesco che inchioda i quattro zombi dell’esistenza in un diluvio definitivo, costretti a camminare, a correre, a lottare, a solidarizzare e scontrarsi, nella speranza che da qualche parte ci sia un’arca pronta a salvarli. E’ lì che stanno andando?

La voce prosegue il suo dark/light, ma ogni tanto interrompe la scansione con un’altra frase: “the end is near”. Forse è l’annuncio di un’apocalisse imminente, come nell’inesorabile conto alla rovescia divino rivelato a Noè. Come una minaccia o come un’illusione: quella che ci possa essere davvero una fine a questo viaggio. Magari sopraffatti dalla morte da cui sembrano usciti, magari inondati da un nuovo diluvio, magari arsi dal fuoco che li consuma come falene. Ma intanto l’unica possibilità è andare andare andare. Ma dove andare? Insomma, dove va questa umanità dopo aver solcato l’epocale svolta del secondo millennio ed essersi riscoperta sempre più fragile e disillusa? Boh!
In girum imus nocte et consumimur igni di Roberto Castello in collaborazione con la compagnia; interpreti Mariano Nieddu, Stefano Questorio, Giselda Ranieri, Ilenia Romano; assistente Alessandra Moretti; luci, musica, costumi Roberto Castello; produzione Aldes. Prima assoluta: Roma, Short Theatre Festival, La Pelanda, 5 settembre 2015.
Visto a: Casalecchio di Reno, Teatro Laura Betti, 22 febbraio 2019.