La morte del cervo

Carlo Massari 1Quando Marlene si alza, infine, dopo essere stata immobile nel suo angolo per tutto il tempo, stravaccata sul suo stallo, e si trascina attraversando in diagonale l’intero spazio, che il suo incedere fa sembrare immenso e immacolato nonostante i postumi di una festa chiassosa, e raggiunge il microfono e canta con voce spezzata l’elegia funebre per i giovani soldati morti… ecco: tutto sembra compiuto. Ma tutto deve ancora cominciare. Quello che è compiuto è la Storia del 900, che Beast Without Beauty racconta attraverso un poema cifrato di visioni e schermaglie fisiche; quel che deve ancora cominciare è la Storia che stiamo scrivendo, e che si compone giorno dopo giorno colpevolmente ignara del passato. Così Carlo Massari affronta di petto i simboli, li materializza nella loro fisicità e li smaterializza dalle loro stratificazioni, li decompone sfibrandone l’identità e poi li ricompone in visioni distillate, li disintegra polverizzandoli attorno a noi come humus nel quale siamo costretti ad affondare le nostre radici, più o meno consapevolmente. Il risultato è un raffinato e originale discorso sull’Europa, sul suo passato e sul suo presente. E il futuro? Ecco, appunto, quello deve ancora cominciare, e con queste premesse c’è poco da stare allegri.

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Il percorso drammaturgico di Beast Without Beauty è lineare, dallo stadio pre-storico a quello storico, dal passato remoto al passato prossimo. L’inizio ci cala nelle radici mitiche del nazismo e di pressoché ogni cultura: una seducente idolatria e retorica della natura e della sua potenza, che si concentra qui in una plastica danza del cervo. Immobile a centro scena, anzi nel centro del mondo, ago divino della bilancia della Creazione e ago geometrico della bilancia scenica di uno spazio devoto alle simmetrie e alle sue spezzature. Il cervo nella più pura epifania animale: imponente, seducente, maestoso. Una bestia con bellezza capace di affascinare per il suo mistero. Il passaggio dal mito alla Storia avviene con la sua uccisione. La morte del cervo non è la morte del cigno: sancisce, semmai, l’appropriazione della natura da parte della cultura, anzi da parte dell’uomo prevaricatore, anzi, insomma: dal nazismo. La morte del cervo rappresenta la creazione di un simbolo di potenza ed egemonia, come si vede nel trofeo che per tutto il resto dello spettacolo incombe al centro del fondale: la testa del cervo ucciso è trofeo per i suoi cacciatori e dimostrazione della loro superiorità nonché garanzia della loro supremazia politica; ma nei suoi lineamenti fieri e nei suoi occhi che ormai non possono più vedere sta il senso di quell’alterazione, della distanza tra l’appropriazione e la verità.

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Dal buio nel quale era calata la danza libera del cervo si passa a una scena completamente bianca, illuminata da una luce abbagliante, da cui sono bandite le oscurità e i chiaroscuri, dove non esistono sfumature: una chiarezza estrema, una pulizia ‘ariana’. E’ qui che compaiono, sotto lo sguardo cieco del trofeo del cervo e sotto lo sguardo altrettanto impotente di una donna anziana seduta in un angolo a smaltire i postumi di una festa, i due protagonisti dello spettacolo. Il piccolo Hitler e il suo doppio ariano. Come mossi dall’energia del centro nel quale il cervo aveva vissuto da animale libero, i due iniziano la loro danza muovendosi in modo circolare, disegnando così un grande cerchio: in mezzo il vuoto lasciato dal cervo, in un angolo esterno la donna, e in mezzo loro due in una corsa rotatoria. Rotatoria e rivoluzionaria, in senso proprio astronomico: la rotazione delle due bestie attorno al cervo-sole ormai eclissato, e la rivoluzione che a tratti compie uno dei due attorno a se stesso. E che rivoluzione! Si chiama nazismo.

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Eccolo il piccolo Führer con i baffetti e i calzoncini corti da gioventù hitleriana, ed ecco il suo doppio, il deuteragonista-antagonista, la sua proiezione ideale: lui piccolo austriaco scuro, l’altro bello biondo, perfetta incarnazione della razza superiore, virtuale metamorfosi della purezza del cervo, bellezza senza bestia, fisicità vitale senza animalità, cioè pura esibizione senza senso della natura. Sono l’endiadi del nazismo, di ogni retorica ideologica, di ogni oltraggio alla natura e all’umanità. E nel loro cerchio risucchiano ipnoticamente le nostre resistenze, dosando l’éclat fisico e la caricatura. Perché quei baffetti, quelle pose giocano con la caricatura del duce tedesco, che Massari porta fino in fondo in una citazione del classico chapliniano Il grande dittatore, quando Hitler di fronte al microfono e alle masse si trova a combattere contro distorsioni e Larsen. E la voce straziante del microfono che gracchia per un attimo sembra l’urlo dolente del cervo abbattuto: la gag comica si salda con l’evocazione tragica. E con Hitler possiamo proprio finirla qui.

Perché non è Hitler il punto. Non più. Basta con il folklore e gli stereotipi: si possono strappare i baffetti a Hitler, si può strappare la parrucca bionda al suo doppio ariano. Scomparse le icone degli anni più bui d’Europa, ecco affacciarsi i rituali di una nuova Europa: i nazionalismi e gli internazionalismi. Sono i rituali della ritrovata democrazia, le strette di mano, le promesse di pace e amicizia tra rivali costretti al gioco delle parti. L’inno europeo suggella il nuovo corso di un continente che sembra aver dimenticato l’aberrazione della Storia. Ma i corpi dei nuovi potenti sono esattamente gli stessi di Hitler e del suo doppio, solo senza baffetti e parrucca. Quell’Europa forzatamente pacifica e unita, nella quale ci eravamo illusi a lungo di vivere e convivere, nasconde in quei corpi senza più baffetti e parrucche le stesse tensioni che avevano mosso l’ultima guerra.

Carlo Massari 3E’ sicuramente forzato leggere nello spettacolo l’esatta riproposizione storico-cronologica dell’Europa, ma non si può non ricordare negli anni ’90 la sorpresa della guerra in ex Iugoslavia e la scoperta del persistere di un feroce nazionalismo che la retorica europeista aveva cancellato, così come la sorpresa dell’attuale travolgente successo dei nazionalismi e dei sovranismi che sembrano azzerare le illusioni con le quali eravamo cresciuti.

Sta di fatto che Beast Without Beauty inaugura ora la sua parte più spietatamente incisiva. Quella del rigurgito nazionalista. Quella della canzone Tomorrow Belongs To Me dal film Cabaret di Bob Fosse. Il film del 1972 rievoca gli anni ’30 nella Germania nazista (ecco, appunto), ma quelle parole hanno attraversato i decenni e sembrano ritornare minacciose nei nazionalismi xenofobi dei nostri giorni e nei populismi antieuropeisti che scalpitano dietro linde diplomazie: “Now Fatherland, Fatherland, show us the sign / Your children have waited to see / The morning will come / When the world is mine”.

La minaccia del nazionalismo va di pari passo con i rituali della politica internazionale. Nello spettacolo arriva il momento della festa. I due personaggi si ritrovano ora a brindare per una ritrovata e fragile armonia. Sulla testa, finte corna di cervo: dall’animale vivo e libero al trofeo impagliato, fino alla sua smaterializzazione nell’accessorio seriale plastificato: la morte del cervo è un ricordo, anzi neanche più quello, è solo icona virtuale. I due corpi seminudi che furono Hitler e furono sinopie del potere sono ormai bestie senza bellezza, scimmiottano una dignità animale che non esiste più, un’armonia mai realizzata, una concordia fallace. Il sapore è di una festa viscontiana (La caduta degli dèi, per rimanere – ancora, e per sempre – negli anni ’30), decadente e cadente. Soprattutto cadente, letteralmente. Per tutto lo spettacolo, ma soprattutto ora, la danza di Massari ha il suo fulcro nel continuo passo malfermo, nel piede non saldo, nell’incedere incerto. E’ uno spazio abbagliante e immacolato, ariano, ma ha la solidità di sabbie mobili. E’ la fragilità del potere che avanza con difficoltà, e che si contrappone mestamente alla maestosa saldezza dei movimenti del cervo iniziale.Carlo Massari 6Tutto questo accade sotto gli occhi del trofeo impagliato. E sotto quelli di Marlene, che giace in un angolo, non toccata da ciò che accade, ignorata testimone del protervio agitarsi di omuncoli alla disperata ricerca della supremazia. Quando tutto finisce, Marlene si alza. Attraversa diagonalmente la scena – sì, anche il centro su cui si fondava la pre-storia incarnata dal cervo – e arriva al microfono sul lato opposto. E’ vestita come nel concerto di Londra registrato per la televisione, An Evening with Marlene Dietrich, quando a 71 anni osservava la sua Europa con l’occhio distaccato di chi ha conosciuto gli abissi di quella Europa e con voce dolente li ricordava a futura memoria. Canta appena, prima che il groppo in gola le spezzi le parole, “Where have all the flowers gone”, dedicata ai morti della guerra. Un canto del cigno, un canto del cervo. Una cantilena malinconica che chiude in tono dimesso la follia della guerra, che per Marlene era il rimpianto per le vite spezzate dalla guerra innescata da quel nazismo da cui era fuggita. Una canzone che sembra riportarci, ancora e per l’ultima volta, agli anni ’30 che hanno sostenuto come riferimento l’intero spettacolo, ma che in realtà spalanca inquietanti presagi sul nostro tempo: un monito sulla deriva estrema dei nazionalismi, quelli che da Hitler arrivano ai nostri giorni dopo aver attraversato l’orgasmo delle strette di mano e della retorica europeista. Perché la signora che aveva osservato accasciata sulla sedia lo sviluppo degli eventi, ignorata dai protagonisti di conflitti e riappacificazioni, e che infine si riappropria della scena per limitarsi a un’elegia funebre, non è altri che l’Europa, bella dilaniata dalle bestie, vecchia e malferma, ma pur sempre divina, sofferente testimone delle aberrazioni della Storia, sorella ideale del cervo, e come il cervo – che ora avvertiamo come vero e proprio animale allegorico del nostro continente – sacrificata sull’altare del potere e della sopraffazione.

Europa mia, benché ’l parlar sia indarno / a le piaghe mortali / che nel bel corpo tuo sí spesse veggio, / piacemi almen che ’miei sospir’……

 

 

Beast Without Beauty, creazione originale Carlo Massari / C&C; con Carlo Massari, Emanuele Rosa, Giuseppina Randi; light designer Francesco Massari; produzione C&C Company; partner: CID / Oriente-Occidente Festival, CSC / Centro per la Scena Contemporanea, Piemonte dal vivo / Lavanderia a vapore, Abbondanza-Bertoni Company / Komm-Tanz, Residenza I.DRA. & Teatri di Vita / Progetto CURA, Arteven / Prospettiva Danza Teatro, Mosaico danza / Interplay Festival, TCVI.

Visto a: Bologna, Teatri di Vita, 21 dicembre 2018.

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