Aderire al modello incarnato dai torturatori o dal pensiero dominante, passare dalla loro parte per sopravvivere, rinunciare al proprio sé per rivestire un’identità che ripugna e affascina, che copre il tuo odore con la puzza del nemico che sei diventato tu stesso… La storia buffa e straziante raccontata da Kafka e portata in scena da Giuliana Musso in La scimmia è un tagliente apologo sul valore e il rispetto dell’identità, declinabile in una varietà talmente vasta di esempi che viene il sospetto che la rinuncia volontaria alla propria identità costituisca uno degli aspetti forse meno appariscenti ma più subdoli e nascosti della nostra società. Perché non si sfugge solo dalla prigionia per arrivare a un’ambigua libertà, come la scimmia protagonista, ma anche da una condizione di minoranza percepita come vergognosa, o da un malessere sociale derivante dal confronto con il mainstream di una società dello spettacolo e dell’apparenza nella quale non ci ritroviamo eppure desideriamo entrare.
Nel racconto Una relazione per un’Accademia del 1917 Kafka mette una scimmia sul podio dei relatori per farle illustrare quella che apparentemente può sembrare la parodia di un’accelerata evoluzione darwiniana: una scimmia che, prelevata dal suo habitat in Africa e rinchiusa in una gabbia, intuisce che le conviene diventare un uomo per scampare a un futuro carcerario in un giardino zoologico. E così, eccola qui, umana, a illustrare la metamorfosi con proprietà di linguaggio e acutezza analitica, per spiegare come la rinuncia alla propria identità e l’ingresso nella società degli uomini sia stata una scappatoia obbligata per evitare un destino di violenza. E’ insomma il percorso contrario rispetto a quello narrato nella Metamorfosi dello stesso autore, pubblicata due anni prima, dove però Gregor Samsa non sceglieva di diventare scarafaggio, e inoltre subiva la condizione nello spazio chiuso della propria camera, vivendo così la trasformazione in una dimensione soprattutto intima e familiare. La mutazione della scimmia, invece, è fin da subito sociale, sia per le modalità con cui prende il via (osservando i marinai che a loro volta la osservano dentro la gabbia durante la traversata: e si noti come la traversata, che unisce due sponde, sia il luogo fluido della trasformazione tra il prima e il dopo) sia per l’obiettivo dell’accettazione nel mondo umano. Lo studioso inglese Gregory Radick ha scoperto recentemente che nel 1913 era approdato a Praga con successo un Wunderschimpanse, ossia una scimmia che girava i teatri di tutto il mondo simulando attitudini umane. C’è anche una foto che ritrae questo povero primate agghindato con giacca, pantaloni e scarpe mentre fuma un sigaro: l’attrazione consisteva nel brivido perverso che gli spettatori potevano avere nel vedere una scimmia scimmiottarli nei loro comportamenti umani, anzi borghesi. La scimmia si chiamava Peter, proprio come la protagonista del futuro racconto di Kafka, che sembra assimilare tutti gli elementi del Peter reale, dall’assunzione di modelli umani come il sigaro fino all’impegno nei teatri. Ma Kafka aggiunge genialmente l’intuito della volontà della scimmia stessa a trasformarsi: dalla volgare violenza addomesticatrice dell’uomo sull’animale si passa alla violenza auto-inflitta come forma di salvezza dalla tortura diuturna della prigionia. E improvvisamente la storia prende una dimensione ben più ampia e universale.

In altre parole, la scimmia incarna esattamente il lacerante conflitto interiore che attraversano gli appartenenti a tutte le minoranze in determinate società tra il rimanere fedeli a sé stesse e l’adeguarsi a modelli, ad aspettative (se non addirittura a caratteristiche fisiche) avanzate dalla maggioranza. Consapevoli o inconsapevoli. Dallo zio Tom della famosa Capanna, assurto a simbolo del ripudio introiettato della propria condizione, fino a una certa ‘moda’ che ha portato molti neri a lisciare i capelli come attenuazione delle proprie caratteristiche fisiche (per non parlare dello sbiancamento della pelle), i neri d’America hanno vissuto al loro interno una vasta gamma di variazioni dell’adeguamento di cui la scimmia kafkiana è esempio. Esattamente come gli omosessuali, che nella storia hanno dissimulato la loro identità per sfuggire proprio a quelle torture e a quella violenza di cui la scimmia è testimone. Esattamente come tutte le minoranze che nei momenti di pericolo, o anche solo di successo dei modelli maggioritari, hanno scelto la strada dell’assimilazione e della rinuncia alla propria identità: un elenco talmente lungo da risultare quasi impossibile. E non è solo questione di minoranze, ma proprio di modelli maggioritari: basti pensare alle donne, che in molti casi hanno dovuto scegliere se adeguarsi al modello femminile richiesto dalla società maschile o, in alternativa, ‘mascolinizzarsi’ (nel comportamento, talvolta perfino nei vestiti) per avere successo in certi ambienti professionali. A questo proposito viene in mente un altro spettacolo teatrale, che affronta questa mascolinizzazione della donna rievocando anch’esso Kafka. E’ La maschia (H to He) di Claire Dowie, che giocando con La metamorfosi presenta una donna che al risveglio scopre che sta diventando un uomo. Il grottesco della situazione nasconde proprio questo processo di perdita dell’identità femminile. Dopo aver cercato di resistere a lungo alla trasformazione, osservando con schifo e orrore le mutazioni mascoline del suo corpo, la protagonista (che nella versione allestita nel 2018 da Andrea Adriatico è Olga Durano, capace di trovare l’equilibrio di un essere in trasformazione proprio nel punto nevralgico più surreale, divertente e doloroso al tempo stesso) non solo cede all’inevitabile, ma addirittura ne è contenta, concludendo con la totale assimilazione: “Sono un uomo”.
Insomma, La scimmia è paradigma dell’omologazione auto-imposta in una società che non permette alle identità altre, alle diversità, di essere sé stesse. Ma non solo. Il racconto sembra spingersi oltre la semplice metafora dell’adeguamento sociale. Infatti, il processo di apprendimento dei comportamenti umani per imitazione da parte della scimmia rinchiusa in gabbia si avvicina fortemente al processo di apprendimento infantile, insomma all’educazione. Certo, Kafka ne doveva pur sapere qualcosa di come l’educazione in ambito prima di tutto familiare costituisse una costrizione ‘violenta’ sugli impulsi naturali, e come l’adeguamento ai modelli paterni borghesi rappresentasse una forma di alienazione. Ma al di là dei casi estremi, vale la pena notare come l’evoluzione della scimmia kafkiana in uomo rasenti l’evoluzione del bambino in uomo, e – continuando così – dell’individuo in animale sociale, per scomodare la classica definizione di Aristotele. Imparare a fumare per la scimmia è la soglia per entrare nel mondo umano, almeno quanto per un ragazzo rappresenti la soglia per entrare nel mondo adulto: ancora una volta si cerca l’assimilazione, la rassicurante entrata “nel sistema”.
Nel suo allestimento Giuliana Musso compie una scelta che sposta ulteriormente il livello del discorso, facendo leva su un’esca del racconto originario e trasformandola nel punto di forza dello spettacolo. Nel testo di Kafka, infatti, la scimmia racconta agli accademici di come sbarchi il lunario esibendosi in palcoscenico, proprio come la vera scimmia Peter in tournée sulle scene di Europa e America. Ebbene, nello spettacolo di Musso l’uomo-scimmia ci appare non in veste di relatore, ma come se fosse in un teatro. E le sue parole non formulano un discorso, ma danno vita a una esibizione. Non si tratta di una relazione di fronte ad accademici ma di un monologo di varietà di fronte a spettatori, eseguito in un ambiente tipicamente scenico, tra una sedia da regista e una cornice luminosa da varietà: e quegli spettatori che assistono indiscreti alle goffaggini dell’animale umanizzato siamo proprio noi. Peraltro, va notato come l’approdo della scimmia al teatro sia sottolineato da una particolare ricerca fisica dell’attrice. Con una straordinaria abilità mimetica Musso non si cala banalmente nei panni di una scimmia, né in quelli di un uomo che fa la scimmia, ma riesce a incarnare magnificamente proprio la surreale realtà di una scimmia che scimmiotta l’uomo – diventandolo – e lasciando trapelare attraverso movenze buffe e grugniti tutto il dolore represso del protagonista. E inoltre carica ulteriormente il personaggio di movenze tipicamente mattatoriali nel senso di una fisicità comica che rimanda proprio agli anni di Kafka: non raramente in alcuni movimenti si può cogliere l’accenno allo slapstick delle prime comiche del cinema muto giù giù fino a Chaplin.
Questa insistenza metateatrale compiuta da Musso nel suo allestimento, che parte dal rapido accenno fatto da Kafka nel suo racconto a proposito dell’attività attuale dell’uomo-scimmia, ha una valenza che aggiunge un’ulteriore densità di senso al discorso. Infatti ci ritroviamo immersi in una condizione di falsificazione al quadrato: la scimmia finge di essere uomo, l’attore finge di essere personaggio, e dunque l’attore-scimmia finge doppiamente… Insomma, il primate protagonista sceglie di essere altro da sé, rinunciando alla propria identità per mostrarsi non solo come uomo, ma come uomo che recita impersonando altro, ossia quel personaggio goffo e simpatico che il pubblico umano desidera vedere. Una vertigine recitativa che sembra non abbandonarlo neanche nel privato, quando l’animale umanizzato – appartatosi con una scimmia ‘naturale’ per fare sesso – recupera per un attimo l’istinto naturale salvo ritrarsene immediatamente dopo. Dalla finzione, da questa finzione, non si riesce più a tornare indietro. Perché sempre di scimmie stiamo parlando. Puoi rinunciare alla tua identità per assimilarti alla maggioranza, ma non puoi ingannare la tua vera natura: il riferimento all’odore (quello umano, quello scimmiesco) sottolineato in un attimo sospeso sul finale dello spettacolo è la straziante rivelazione del baratro sul quale è sospeso il protagonista senza alcuna possibilità di soluzione. Viene in mente l’altra celebre metamorfosi letteraria dei primi decenni del ’900, quella raccontata da Bulgakov in Cuore di cane. Ma in quel caso il cane Pallino, diventato il signor Pallinov non per sua scelta ma per decisione umana, non solo era soggetto passivo della trasformazione, ma non aderiva ai modelli imposti per l’inserimento sociale, prendendo dagli uomini solo gli aspetti asociali o peggiori, in qualche modo recalcitrando di fronte alla possibile omologazione (che nella fattispecie era nientemeno che l’omologazione sovietica), diventando specchio involontario dell’assurdità delle convenzioni sociali, e quindi tristemente destinato a ritornare cane.
Non è un caso che Musso esalti al massimo il lato scimmiesco della protagonista, facendo uscire l’irreprimibile cuore di scimmia. Se il racconto di Kafka sembrerebbe suggerire la definitiva omologazione della scimmia all’uomo, anche fisicamente, lo spettacolo di Musso ne evidenzia invece l’irrinunciabile animalità: versi gutturali, andatura ondeggiante, grattatine inconsulte, espressioni facciali tipicamente scimmiesche che, come ho detto, l’attrice dissemina perfettamente in una sorta di partitura vocale-corporea dove l’uomo, la scimmia e lo slapstick convivono, ma dove il lato animale rappresenta il perno sostanziale perché identitario. La scelta di Musso è radicale e il titolo lo testimonia con una potente ferocia: La scimmia (e non un eventuale Una relazione per un’Accademia o neanche L’uomo-scimmia) riporta inequivocabilmente il discorso all’identità mascherata, ma anche all’identità insopprimibile, quella dell’animale che non può nascondersi o simulare, e che infatti si palesa sulla scena come un ibrido tra ciò che è e ciò che cerca di apparire. Ricordandoci come la rinuncia a sé per rincorrere l’omologazione della società dell’apparenza, foss’anche con un selfie in più secondo i crismi più fashion, non risolva il confronto necessario con sé stessi e con l’accettazione di sé: anzi, con l’orgogliosa accettazione di sé.
La scimmia testo originale di Giuliana Musso liberamente ispirato al racconto Una Relazione per un’Accademia di Franz Kafka; traduzione e consulenza drammaturgica di Monica Capuani; musiche originali composte ed eseguite da Giovanna Pezzetta; movimento a cura di Marta Bevilacqua; assistente alla regia Eva Geatti; direzione tecnica Claudio Parrino; costumi Emmanuela Cossar; trucco Alessandra Santanera; produzione musicale Leo Virgili; costruzione elementi scenici Michele Bazzana; assistente alla produzione Miriam Paschini; foto Adriano Ferrara, Manuela Pellegrini; produzione La Corte Ospitale; coproduzione Operaestate Festival Veneto; con il sostegno del Teatro Comunale Città di Vicenza (progetto Residenze 2018 – We art 3); consulenza scientifica Valeria Vianello Dri, Annamaria Rossetti, Giovanna Bestetti. Prima assoluta: Cividale del Friuli, Mittelfest, Teatro Adelaide Ristori, 18 luglio 2019.
Visto a: Pieve di Cento, Teatro Alice Zeppilli, 8 novembre 2019.