
La pratica della partecipazione in teatro è specchio della riflessione sulla partecipazione nella vita sociale e politica; la responsabilità dello spettatore, insomma, rimbalza sulla responsabilità dell’individuo nei confronti degli altri. Almeno questo è il desiderio di gran parte del cosiddetto teatro partecipato, che però la maggior parte delle volte si risolve in un semplice sfondamento della “quarta parete”, in un gioco di società o in un paradigma sociopolitico tanto didascalico e retorico quanto inutile. Due spettacoli, comparsi a distanza di quattro decenni, mi sembrano esemplari per un modello di partecipazione dello spettatore davvero necessario e spietato, più sottile il primo, più feroce il secondo. Due opere che affondano il coltello nel pubblico teatrale, stuzzicandone gli istinti nascosti, facendo emergere segretamente (la contraddizione terminologica è la chiave di volta di questi lavori) i meccanismi più agghiaccianti che in verità condizionano proprio la vita sociale e politica. Grazie a un po’ di frutta: una noce e delle arance.
Nel febbraio 1973 va in scena in una ‘cantina’ romana uno dei classici dell’avanguardia teatrale italiana: Sacco del Club Teatro, ossia Claudio Remondi e Riccardo Caporossi (Rem & Cap). Un gioco sadomasochistico in cui Cap ‘tortura’ Rem, chiuso in un sacco appeso, con terribili strumenti e glaciale crudeltà. A un certo punto, dal sacco esce una mano. Cap la stritola, ne cade una noce, Cap la frantuma, si avvicina a uno spettatore e gliela porge. In tutte le tantissime repliche di Sacco, come mi raccontò molti anni dopo Cap, lo spettatore ha sempre accettato la ‘cortesia’ e preso la noce, tranne una sola volta. E quella volta io c’ero (e quel rifiuto dello spettatore trasformò radicalmente e per sempre il mio sguardo sul teatro).

Avvenne cinque anni dopo, nel 1978, non avevo ancora 16 anni e una sera mi spinsi apposta in treno dalla lontana e sperduta provincia fino a Genova, trascinando un perplesso compagno per affrontare un viaggio non semplice (soprattutto nel convoglio notturno del ritorno) e vedere questo spettacolo nel piccolo spazio del Teatro dell’Archivolto nella zona meno raccomandabile del capoluogo ligure. Ricordo perfettamente il lungo sguardo di sfida tra Cap, che teneva in mano un piccolo tagliere con la noce aperta, e lo spettatore che lo fissava negli occhi e con le braccia conserte rifiutando l’offerta. I due rimasero molto a lungo immobili, l’attore ritto con la mano tesa e lo spettatore seduto con le braccia conserte. Il resto del pochissimo pubblico cominciò a stufarsi, a rumoreggiare, infine a gridare allo spettatore di prendere la noce e di far andare avanti lo spettacolo. Uno perfino si alzò e cercò di prendere la noce, ma Cap allontanò la noce: doveva essere lo spettatore prescelto a prenderla. Io temevo di non riuscire a vedere la fine, perché l’ultimo treno della notte non avrebbe certo aspettato, e il mio compagno già sbuffava. Alla fine credo che Cap abbia ceduto e lo spettacolo abbia continuato senza il consumo della noce. Fortunatamente riuscii a fermarmi per i primi 5 minuti del dibattito successivo (erano gli anni 70: dibattito!), e ovviamente la prima domanda fu allo spettatore cocciuto, che vent’anni dopo scoprii essere il critico d’arte Germano Celant. Lui rispose semplicemente: “Se avessi preso la noce sarei stato complice della tortura”. Facile capirlo ora, impossibile farlo allora. Fui folgorato e, pieno di domande e pensieri, lasciai la sala e corsi verso la stazione per non perdere l’ultimo treno. Da quel momento per me il teatro è esattamente questo: il luogo di rivelazione della responsabilità dello spettatore, che sia sotto forma di coinvolgimento attivo o di semplice visione passiva.

Mi è tornato alla mente questo episodio assistendo a Questo lavoro sull’arancia di Marco Chenevier, che – forse inconsapevolmente – aggiorna la riflessione di Rem & Cap sulla responsabilità dello spettatore, e quindi sulla responsabilità dell’individuo nei suoi rapporti sociali (e politici). Gli anni 70 nei quali operavano Rem & Cap erano gli anni in cui i cittadini cercavano di conquistare un nuovo e diverso protagonismo (e quindi responsabilità) nella vita pubblica, ed erano gli anni degli scontri violenti in Italia e delle dittature sudamericane: essere complici del sistema era un punto centrale di una riflessione condivisa da tutti. Quel sistema che Cap rappresentava ‘torturando’ Rem chiuso nel sacco, ‘espropriandolo’ di una noce e cercando un’infida connivenza con il pubblico spacciata come cortesia. Un torturatore a sua volta imbrigliato dal rapporto ambiguo con il torturato, ma di fatto espressione di un potere persuasivo, che poteva essere il potere politico, ma anche quello consumistico che in quegli anni Pasolini aveva additato non casualmente come un nuovo fascismo. La reazione all’offerta della noce da parte del pubblico, a parte quell’unica notte a Genova di cui sono stato testimone, è sempre stata di accettare di essere parte del sistema di oppressione, pur senza esserne consapevole: che è esattamente il nocciolo della questione. Credere di partecipare a un gioco o a una stranezza da teatro d’avanguardia, senza rendersi conto che il teatro – specchio del mondo – ti chiede di riflettere sul tuo ruolo e di decidere da che parte stare. Va beh, certo, è teatro, è gioco teatrale, è un’azione studiata dagli artisti ai fini dell’evoluzione drammaturgica e scenica: che male c’è nell’accettare ciò che l’attore propone, nel diventare parte del gioco teatrale, nell’essere protagonista per dieci secondi? Ma il teatro è qualcosa di molto più serio, che si camuffa dietro un’apparenza ludica. Esattamente il meccanismo messo a punto da Chenevier nel suo spettacolo.

All’entrata di Questo lavoro sull’arancia viene distribuito a ciascuno spettatore un sacchetto di carta che contiene alcuni oggetti, tra cui un’arancia, appunto: serviranno per partecipare al gioco. Lo spettacolo si sviluppa infatti attraverso tappe di un gioco diabolico nel quale è coinvolto l’intero pubblico. Ma quest’ultimo, mentre crede di partecipare a un rito divertente, in realtà si trova immerso in una delle distopie più agghiaccianti comparse sullo schermo: il film di Stanley Kubrick Arancia meccanica. Insomma, il titolo Questo lavoro sull’arancia non rimanda superficialmente al frutto presente nel sacchetto di gioco, ma esprime il piano di Chenevier: questo è un lavoro su Arancia meccanica, o meglio un esperimento sulla violenza nella società contemporanea, o meglio sulla assuefazione alla violenza (propria e altrui) già sondata dal regista americano. Non a caso, , se non fosse abbastanza chiaro, la colonna sonora dello spettacolo di Chenevier ricalca esattamente quella del film di Kubrick: Rossini, Beethoven e soprattutto l’inquietante e straordinario tema principale di Wendy Carlos, usato qui per introdurre il momento più terribile dello spettacolo. Ma procediamo con ordine.
In una scena interamente candida e vuota stanno due performer – lo stesso Chenevier e Alessia Pinto (Elena Pisu nella seconda replica, come dirò poi) – e un arbitro. Una voce elettronica enuncia dettagliatamente, lungo tutta la durata, le regole: al pubblico vengono richieste azioni precise che saranno premiate. Per esempio, i due performer iniziano a danzare: se uno spettatore non gradisce il pezzo, può creare un aeroplanino con il foglio di carta contenuto nel suo sacchetto, tirarlo, e se questo arriverà sul tappeto di danza allora dovrà motivare le ragioni del suo dissenso e così riceverà una banconota (vera) di 5 euro. All’azione di dissenso (in realtà di boicottaggio, di ostilità) corrisponde la ricompensa. Sembra quasi un gioco da luna park; lanci, e se ci prendi ti porti a casa qualcosa. Le tappe hanno un’escalation. Per esempio, viene chiamato un volontario, Chenevier sta per bere un bicchierone di latte ma si dichiara che è intollerante al lattosio e che solo il volontario ha il potere di fermarlo e salvaguardare la sua salute: ma se non lo ferma, il volontario guadagna una banconota. L’intolleranza al lattosio è molto cool e il pubblico ride con gusto dell’apparente originalità della trovata, ma in realtà il latte è un ulteriore segno in codice: è la bevanda del Korova Milk Bar gradita dai teppisti di Arancia meccanica, prima della follia. Che anche qui sta per scatenarsi.

Lo spettacolo prosegue tra pezzi di danza da fermare e bevute di latte. Poi, lo spettrale tema musicale di Carlos introduce la tortura finale nello spazio che viene allestito per il rito conclusivo. Ancora qualche gioco con i volontari, che devono spogliarsi per guadagnare un po’ di soldi (veri). Poi, la danzatrice viene legata e sulla sua bocca viene messo un nastro. Sarà la vittima sacrificale: chi vuole partecipare all’estrazione finale (dove si vincono oltre 50 euro) dovrà strizzare dentro i suoi occhi mezza arancia (ancora un rimando alla celebre tortura ‘beethoveniana’ degli occhi spalancati, nel film) e depositare il suo nome nell’urna. Chi vuole fermare questa tortura, invece, deve colpire con 40 arance Chenevier, che intanto versa secchi di latte sulla sua collega. E’ a questo punto che il pubblico, che fino ad allora aveva partecipato in vario modo allo spettacolo, tirando aeroplanini e intascando soldi, si scatena. Molti si alzano e corrono a spremere arance negli occhi dell’una, molti altri corrono a lanciare con forza le arance contro l’altro. I pochi che rimangono seduti ai loro posti senza compiere atti di violenza contro uno dei due performer assistono a una scena da girone infernale: gente scatenata che si presta, ridendo, a essere parte di una diabolica macchina della violenza sociale. Alla fine, dopo l’estrazione del vincitore che porta a casa un po’ di soldi, il pubblico applaude ed esce. Sulla porta sta la donna torturata, che con un sorriso regala a ogni spettatore una caramella. Ogni spettatore, insomma, viene premiato per la sua complicità, perché nessuno può dire di essere stato estraneo alla violenza e alla tortura, nessuno si è alzato per bloccare il meccanismo, nessuno se n’è andato per sottrarsi, tutti hanno partecipato o almeno assistito. Una caramella che brucia: il premio per l’acquiescenza di massa, magari quella che Hannah Arendt chiamava “banalità del male” e quella che ha portato milioni di persone a partecipare o accettare muti le peggiori dittature.

Senza arrivare a questi estremi, che pure costituiscono il punto d’arrivo logico-concettuale di Questo lavoro sull’arancia, lo spettacolo è davvero il geniale laboratorio per un esperimento di psicologia sociale alla Stanley Milgram, che sceglie quella cosa seria e scherzosa al tempo stesso che è il teatro per portare in evidenza le dinamiche e i comportamenti in condizioni estreme, che tuttavia riproducono in modo paradossale processi quotidiani. Ma soprattutto fanno emergere la naturale predisposizione alla violenza, grazie alla cornice ‘rassicurante’ del gioco teatrale. Lo aveva capito già anche Marina Abramovic in un altro esperimento, quando nel 1974 (proprio a ridosso del Sacco di Rem & Cap) realizzò la performance Rhythm 0 alla Galleria Studio Morra di Napoli: per 6 ore si mise passivamente alla mercé degli spettatori, che le potevano fare di tutto, e in effetti la spogliarono, la toccarono, la ferirono tagliandole la pelle e facendola sanguinare. Crudeltà pura, ‘autorizzata’ dall’invito iniziale (si può fare tutto su di lei) e dalla cornice extra-quotidiana che sembra allontanare la materialità della violenza e del dolore, e quindi crudeltà ‘giustificata’ dalla partecipazione a un rito o a un gioco. E’ proprio il meccanismo che sta alla base di Questo lavoro sull’arancia, nel quale l’autorizzazione, arricchita del valore venale del premio monetario, e la cornice teatrale consentono al pubblico di partecipare sorridendo ad atti di reale violenza fisica, fosse pure la non verificabile intolleranza al lattosio, o alle dolorose azioni finali.
Proprio per queste ragioni, lo spettacolo di Chenevier va visto con pubblici diversi. Nel mio caso, a Torino e Bologna, dove le reazioni sono state molto diverse. Il pubblico torinese di un festival di danza, con spettatori fortemente interessati alla ricerca artistica e coreografica, ha reagito come da copione. Ha ascoltato con attenzione le regole, ha partecipato diligentemente, ha intascato i soldi lasciando che Chenevier bevesse il latte, si è avventato sulla danzatrice strizzandole le arance negli occhi ma anche lanciando gli agrumi addosso al danzatore. Il pubblico bolognese di un festival giovanile, con spettatori curiosi di scoprire cose nuove, ha reagito come di fronte a una festa da sballo. Spesso ha agito ancor prima di sentire le regole (e quindi talvolta equivocando), disinteressato ai soldi, interessato semmai semplicemente a divertirsi partecipando e facendo casino. Con una particolarità: nessuno ha fatto bere il latte e pochi hanno strizzato l’arancia negli occhi (il vincitore finale è stato accolto perfino da qualche “buuu”), ma molti hanno comunque cercato di ostacolare i pezzi di danza per puro spirito carnevalesco e alla fine hanno lanciato le arance su Chenevier.

Credo che, in un certo senso, le due repliche abbiano mostrato due declinazioni della società attuale. Da una parte, il conformismo di una società che si muove obbedendo alle regole, cercando di ottenere vantaggi e lasciandosi andare con ‘cattiveria’ grazie all’accettazione dei propri comportamenti da parte della massa che li condivide o li tollera (la banalità del male, dicevamo). Dall’altra, quel caos caciarone (facilmente ritrovabile nei social media, dove metti il like ad articoli senza leggerne il contenuto ma solo il titolo in modo sommario) nel quale basta esserci e farsi notare, senza badare troppo a quel che dice l’altro, ma semplicemente lasciandosi trasportare dalla corrente, alternando sprazzi di morale a giudizi sommari. Il punto è che in entrambi i casi lo spettatore ha manifestato la propria responsabilità nel peggiore dei modi, cioè aderendo a quelle che ha ritenuto essere le aspettative degli artisti e non a quelle che probabilmente (o forse no) sarebbero state le coordinate etiche e politiche del proprio pensiero individuale. Certo, parliamo di uno spettacolo, che diamine! Ma il meccanismo che Chenevier ci ha sbattuto davanti agli occhi è esattamente il meccanismo politico che porta all’assuefazione all’odio e alla violenza: obbedisci a quel che ti viene detto, vedi che fanno così anche gli altri, ti sembra che sia tutto uno scherzo… e intanto, piano piano, ti trasformi in un mostro, e inizi a comportarti in modi prima strani e poi sempre più agghiaccianti, in un lento ma inesorabile slittamento, e alla fine inizi a pensare in questi modi a cui non avresti mai aderito se fossero stati espliciti in tutta la loro crudeltà fin dall’inizio. L’escalation di odio e violenza nella società italiana in questi ultimi anni, ‘autorizzati’ dal fatto che sono in tanti (e da posizioni autorevoli) a esprimerli, mostra come Questo lavoro sull’arancia colga perfettamente nel segno non solo del meccanismo teatrale ma delle nostre coscienze, e lo esprima con sottile e cinica perfidia. Perché Arancia meccanica non è più fantascienza, sembra dirci Chenevier, e i drughi sono in mezzo a noi. Siamo noi.
Questo lavoro sull’arancia, regia, coreografia Marco Chenevier; danza Alessia Pinto / Elena Pisu e Marco Chenevier; direttore tecnico Andrea Sangiorgi; produzione ALDES, con il sostegno di Twain Residenza di spettacolo dal vivo della Regione Lazio, con il sostegno di MIBACT e Regione Autonoma Valle d’Aosta. Prima assoluta: Roma, Festival Teatri di Vetro, Carrozzerie n.o.t., 5 ottobre 2017.
Visto a: Torino, Festival Interplay, Teatro Astra, 22 maggio 2018
Rivisto a: Bologna, Festival 20 30, Arena del Sole, 30 novembre 2019