
Il teatro ucciso dalla donna delle pulizie? Quali simbolismi occulti ma soprattutto quale fantasia irriverente ha potuto immaginare di far concludere in questo modo una commedia dal perfido meccanismo pirandelliano (La notte di Madame Lucienne) mandando direttamente all’altro mondo qualsiasi possibile dibattito sul futuro del teatro? Copi, ovviamente: e chi altri?
Ciclicamente il teatro di Copi torna sulle scene italiane, e ogni volta è una nuova rivelazione. Perché ogni volta quell’estroso argentino sbarcato a Parigi nel 1962 poco più che ventenne, e diventato ben presto famoso per i suoi disegni umoristici sul “Nouvel Observateur”, acquista nuova luce. Altro che semplice illustratore prestato al teatro; altro che attore “en travesti” dall’angolosa faccia alla Buster Keaton, per un pubblico di nicchia in monologhi fuori di testa… Raul Damonte da Buenos Aires, classe 1939, è un vero e proprio “classico” della drammaturgia del secolo scorso. A oltre trent’anni dalla morte, avvenuta nel 1987, la statura di Copi cresce rivelando la complessità e la solidità del grande autore.
Copi ha avuto successo in Italia a partire dalla fine degli anni 60 come autore di un fumetto che vedeva protagonista una donna dal nasone esagerato. Immobile su una sedia, la Donna Seduta dialogava con improbabili interlocutori che approdavano al suo cospetto: uomini e donne sì, ma anche polli e altri strani soggetti. Anche i dialoghi erano strani. Sospesi. Scanditi da pause infinite, per terminare con frasi lapidarie e spiazzanti. Forse anche per questo quando si parla di Copi si pensa subito e soltanto a una comicità strampalata e nulla più. Come se non bastasse, egli stesso amava esibirsi in teatro interpretando personaggi deliranti e transgender, come nelle vesti della folle Loretta Strong. Una “pazza” geniale: ecco a cosa si pensa quando si parla di Copi. E invece… Invece Copi è prima di tutto un grande scrittore, al punto che in Argentina la sua narrativa è oggetto di maggiore attenzione rispetto agli altri generi da lui frequentati: il teatro e il fumetto, appunto. Un autore capace di scavare in profondità nei temi più indicibili e rimossi, ma anche più essenziali dell’umanità: la vita e la morte, la violenza e il potere, il sesso e l’identità. Capace di farlo portando alle estreme conseguenze ogni aspetto di questi temi, anche cruento (stupri, torture, delitti e infanticidi sono ovunque nei suoi testi), ma sempre sotto il registro di una nera comicità. Tragedia della contemporaneità e risate spassose si sposano in Copi come mai era successo prima, mescolandosi all’oltraggio e alla sottigliezza, e aprendoci gli occhi sulle nostre fragilità e sulla società in cui viviamo.

I testi di Copi sono macchine drammaturgiche perfette, congegni di pura teatralità, dove l’apparente scoordinamento delirante è in realtà retto da un equilibrio scenico di straordinaria sapienza, che proprio la prova del palcoscenico dimostra in maniera inequivocabile. Sono opere di calzante modernità, sia nella struttura che nei temi: anzi, a cominciare proprio dall’intreccio costante tra struttura e temi. Ecco personaggi in permanente mutazione di identità, a cominciare da quella sessuale… luoghi di autoreclusione da cui non si può uscire se non verso la morte o il nulla… tempi ciclici, dilatati o compressi, mai quotidiani… rapporti interpersonali regolati dall’avidità del potere e del denaro… sottili destrutturazioni degli stereotipi della letteratura e del cinema “di genere”… l’ingombrante presenza di una madre alter ego che spalanca abissi in una psiche frammentata… e, su tutto, la morte.
E’ la morte la reale protagonista del teatro di Copi, nella sua implacabile imprescindibilità, in una sorta di “teatro della morte” popolato di fantasmi, ma – al contrario di Tadeusz Kantor – senza memoria, e invece con il beffardo relativismo di chi pensa che “essere vivi o essere morti è la stessa cosa”, come diceva Pasolini nel corto La terra vista dalla luna. Non è un caso che per parlare di Copi lo scrittore René de Ceccatty abbia fatto riferimento proprio a Pasolini, insieme a Genet, per suggerire una parentela: una sorta di trinità di quegli autori che hanno imposto in modo decisivo nel teatro degli ultimi decenni una centralità del sesso, secondo concezioni diversissime ma ugualmente basilari. Dunque Copi imparentato con Pasolini e Genet? Non solo. Le parentele sono ancor più complesse e svelano la molteplicità dei livelli nei suoi testi. Si pensi all’essenzialità del linguaggio che ricorda Samuel Beckett (come già trent’anni fa notava Franco Quadri), o alla claustrofobia degli spazi che ricorda il primo Harold Pinter e che in Copi sono non solo appartamenti borghesi o grattacieli di periferia, ma anche capanne siberiane, piramidi incas o astronavi interplanetarie.

Che dire dell’angosciante solitudine che fa compagnia alla protagonista del Frigo, murata in casa e costretta a inventare altri personaggi per farsi insultare e violentare, in un monologo-delirio che fa il paio con l’astratto Loretta Strong (portato in Italia dallo stesso Copi nel 1978)? E dell’agghiacciante e vertiginoso Torre della Défense (recentemente messo in collegamento da Giulio Iacoli con il Dinner party di Pier Vittorio Tondelli), che si svolge tra i segnali di un’apocalisse imminente fra i diversi e i reietti della società prima della strage conclusiva con lo schianto di un velivolo su un grattacielo (quasi profetico per chi vivrà poi l’11 settembre)? E de L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi, dove la parodia delle tre sorelle cechoviane è calata in un mondo di transessuali nella steppa siberiana, fra gag irresistibili che culminano in una divertente e al tempo stesso terribile automutilazione di Irina? L’omosessuale compone con lo speculare Le quattro gemelle un dittico di parodie sottili (Cechov, appunto, e il genere noir) in orizzonti esotici reinventati rispettivamente in Siberia e in Alaska, con crudezze tematiche trasformate in oggetto di scherno.
La lussureggiante fantasia tipicamente argentina di Copi si sposa con una violenza precocemente conosciuta, quando il padre, giornalista e uomo politico, braccio destro di Perón, poi ravveduto dopo l’ascesa al potere del leader populista, scelse l’esilio con la famiglia. Una vita randagia che approda nella grande Parigi (ma con una simpatia fortissima per l’Italia), dove giungono a Copi ormai francese e ormai famoso gli echi devastanti di una delle più grandi tragedie del ventesimo secolo: quelli della feroce dittatura di Videla e dei desaparecidos. L’impegno nel teatro era iniziato già a Buenos Aires con Un angelo per la signora Lisca, scritto e diretto da Copi nel 1962, e riprende a Parigi con vigore con il monologo Santa Géneviève nella sua vasca da bagno, recitato dallo stesso Copi, e La giornata di una sognatrice, entrambi con la regia di Jorge Lavelli, rimasto da allora il più assiduo regista dei suoi testi; e con L’alligatore, il tè, diretto da Jérome Savary. Ma è con la beffarda e violenta Eva Perón del 1970, scritta per il Groupe Tse guidato da Alfredo Arias, che Copi accede clamorosamente alla cronaca: non solo culturale, visto che lo spettacolo fu occasione per un allucinante raid neofascista che distrusse il teatro nel divertimento del pubblico che credeva di assistere a una finzione teatrale. Eva Perón è la finta cronaca di una finta morte, un’opera sull’avidità, che trasforma l’eroina dei montoneros in paradigma deformato e abnorme del potere violento: una Ubu roi del nostro tempo, in un testo feroce che non si immaginerebbe scritto dal timido e delicato Copi, che sapeva trovare la verità attraverso il riso, e che sapeva ridere di ogni cosa.
E ancora, che dire delle insospettabili tragedie in versi Le scale del Sacro Cuore e Cachafaz (Tango barbaro)? Degli apologhi sociali dedicati al suo paese natale, e mai tradotti in italiano, come La coppa del mondo e L’ombra di Venceslao? Fino all’ultima commedia Una visita inopportuna, beffa sublime di un Copi in fin di vita, che si diverte a mettere in scena la sua stessa morte pochi mesi prima di morire davvero: un testo scritto in ospedale mentre stava morendo di Aids, che vede come protagonista proprio un teatrante in ospedale mentre sta morendo di Aids. Copi volle che fosse rappresentata dai suoi amici nonostante il loro imbarazzo, ma non fece in tempo a vederla: al debutto, poche settimane dopo la sua morte, si poteva vedere il pubblico ridere e piangere al tempo stesso, in una tempesta di emozioni come solo il teatro di Copi ha saputo dare. Ridendo della morte non per esorcizzarla ma per cercare di renderla innocua, più simile alla vita, in un corto circuito inquietante e assoluto: l’abisso nascosto dal trionfo del nonsense. Specchio perfetto di un vero anarchico come era Copi, nipote della celebre Salvadora Medina Onrubia, anarchica militante, drammaturga e lesbica: nonna incredibile che sembra uscita da una sua commedia.

Quindi, Copi autore insidioso e problematico? Sì, ma non come si potrebbe immaginare. Il fatto è che è impossibile staccare questo teatro dal suo registro più genuino e imprescindibile: la comicità. Una comicità straripante e imbarazzante al tempo stesso, capace di portare buonumore e disagio, grasse risate e silenzi di gelo. Difficile ridere di delitti e rapine, aborti e infanticidi, malattie e tossicodipendenze, strazianti torture e irrevocabili mutilazioni, efferati cannibalismi e stragi apocalittiche, ma soprattutto incolmabili solitudini e sindromi psicopatologiche. Eppure proprio lì sta l’originalità assoluta di Copi e, ancora una volta, una spiazzante modernità, nel solco della più grande e rimossa tradizione del grottesco e del surreale. Posizionandosi arditamente tra divertissement e engagement, partendo da Alfred Jarry per arrivare al teatro dell’assurdo fino al “panico” di Fernando Arrabal. Ma ricordando anche la lezione di Witold Gombrowicz, l’europeo finito in Argentina, nel percorso inverso che decenni dopo ha fatto Copi insieme ai tanti argentini che hanno scandito la vita teatrale parigina, e con i quali il nostro ha vissuto quell’intensa stagione: Jorge Lavelli, Alfredo Arias, Victor García, Jérome Savary, Facundo Bo… Approdato a Parigi, Copi all’inizio sbarca il lunario dando vita alle strip della Donna seduta, che aprono irresistibili squarci surreali in mezzo al fumetto “impegnato” di quegli anni. E’ il suo sguardo di straniero a spiazzare e affascinare. Straniero come tanti altri “francesi” che, secondo la grande tradizione degli artisti emigrati sotto la torre Eiffel, hanno riscritto le regole di una lingua non materna. Reinventando anche la scrittura drammaturgica, così come aveva fatto vent’anni prima un altro celebre straniero, il rumeno Eugène Ionesco.
Copi il classico riemerge periodicamente con una potenza inattesa, come mostra l’infaticabile opera di Marcial Di Fonzo Bo e del suo Théâtre des Lucioles, che in Francia ha realizzato l’ambizioso e puntuale progetto Les Copis: ben sei diversi spettacoli, con una significativa doppia consacrazione al Festival d’Avignone e al Festival d’Automne di Parigi. Anche in Italia la moltiplicazione di messinscene degli anni scorsi ha rivelato la ricchezza di quei testi, proprio grazie alle personali visioni artistiche dei registi più disparati. A cominciare dal primo Eva Perón, diretto da Mario Missiroli nel 1971, con l’interpretazione di Adriana Asti, per continuare con le regie di tanti altri, che cito qui solo in minima parte: Marco Gagliardo (Irina, 1978, La notte di Capodanno, 1988, e Le frigo, 1993), Silvio Benedetto (La notte di Madame Lucienne, 1986, e La piramide, 1989), Cherif (Una visita inopportuna, 1989, e L’omosessuale o la difficoltà di esprimersi, 1993), Ferdinando Bruni e Elio De Capitani (Tango barbaro, 1995)… Senza dimenticare il devoto lavoro ventennale del Teatro della Tosse, che si è votato a più riprese a Copi con registi diversi, come Tonino Conte (Eva Perón, 1986, e L’omosessuale, 1999), Nicholas Brandon (Il frigorifero, 1989, e Loretta Strong, 2000) e Amedeo Romeo (Il pollo e la sua mamma, 1999). Fino all’approdo massiccio di nuove e inedite letture di Copi dall’area del nuovo teatro nel nuovo secolo, a cominciare da Andrea Adriatico per Teatri di Vita (Le quattro gemelle, 2001, Il frigo, 2005, e L’omosessuale, 2012), e poi Arturo Cirillo (La Piramide!, 2004), Virginio Liberti e Annalisa Bianco per Egumteatro (Loretta Strong, 2004, e L’omosessuale, 2005), Lorenzo Fontana (Les escaliers du Sacre-Coeur, 2006), Pappi Corsicato (Eva Perón, 2008), Giuseppe Isgrò (Le quattro gemelle e Loretta Strong, 2009), Claudio Orlandini nei molti percorsi laboratoriali dal 2005 in poi, e tanti altri ancora.

Se la Francia ha assimilato nel suo pantheon l’ultimo dei suoi surrealisti eretici e l’Argentina tra i suoi campioni della letteratura moderna, l’Italia ha offerto a Copi un’attenzione ai limiti dell’adorazione. A partire dallo scopritore Oreste del Buono, che promosse i disegni di Copi su “Linus”, traducendo anche le due prime commedie francesi. Per continuare con Franco Quadri, curatore del volume Teatro, con le belle traduzioni di Luca Coppola e Giancarlo Prati, le cui vite sono state tragicamente spezzate in un orrendo duplice omicidio proprio durante queste traduzioni. Sono ormai introvabili i libri di fumetti, piccoli capolavori, a cominciare dallo splendido Libro bianco per bambini, per continuare con l’interminabile saga della Donna col nasone, fino a Il fantastico mondo dei gay e delle loro mamme: testamento per vignette percorse da quell’imbarazzante coincidenza degli opposti che mescola qui la commozione straziante per un pesante senso della morte con la scoppiettante fragranza dello sberleffo totale e di una libertà senza confini.
Già, il mondo dei gay… Perché l’omosessualità è punto centrale e ineliminabile per Copi, altrimenti non si capirebbe nulla del suo mondo. E però è anche punto da cui partire, non su cui fermarsi, perché altrimenti quel mondo si dissolverebbe rapidamente. L’omosessualità è premessa dell’intera opera di Copi, non oggetto. Il camp è un linguaggio che resta nel paesaggio di sfondo della sua drammaturgia, così come dei suoi otto romanzi (irresistibile e amaro Il ballo delle checche, il più famoso), ma non è il linguaggio di Copi, così come non lo è lo spagnolo o il francese, le lingue in cui scriveva. Il linguaggio di Copi è suo e solo suo, un universo linguistico e semantico che in scena si trasforma in materia viva e pulsante, che imposta una tesi, poi un’antitesi, e alla fine propone una sintesi che in realtà non ha nulla a che vedere con le premesse. Eppure ne ha: mistero del linguaggio di Copi. E mistero di un teatro popolato di transgender che in realtà non attraversano semplicemente i generi sessuali, ma intere identità, intere culture, interi mondi. Nessuno è come è e come è stato e come sarà; eppure è tutto questo, e quindi non è più nessuno. E allora è forse lo spettatore che guarda, con le labbra aperte a metà nell’imbarazzo di un ghigno sortito dalle peggiori efferatezze perpetrate sul palcoscenico o dai più perversi turpiloqui. Che non fanno male: che invece fanno ridere, come quelli di un bambino, di cui ci si affretta a dire che chissà dove avrà mai sentito certe parole… Parole inopportune. Per un teatro inopportuno. Ma inaspettatamente urgente e necessario contro i troppi opportuni e i troppi opportunismi di quest’epoca teatrale.
(Ripropongo qui con diverse modifiche e aggiornamenti questo scritto, pubblicato sul trimestrale “Hystrio”, n. 3, luglio-settembre 2006, in occasione dell’anniversario della morte di Copi, avvenuta il 14 dicembre 1987)
