La rete dei legami e dei dolori ha a che fare con il tempo, che tesse la sua tela imperfetta e implacabile, dove gli inciampi creano aperture e dove le aperture sono inciampi. Neve d’ottobre, il nuovo romanzo di Angela Nanetti, è una ragnatela di emozioni create dal tempo, incrostate nelle vite dei suoi protagonisti, che scivolano dal nostro sguardo ogni volta che abbandoniamo per un attimo (qualche pagina… qualche anno…) una storia per essere risucchiati in un’altra.
E’ anche un romanzo sulla famiglia, quindi sul destino che ti fa nascere qui e non lì, e sul destino che ti conduce lì e non qui, seguendo qualcosa chiamato blandamente amore e che ti risponde chiamandoti possibilità. Ma soprattutto è un romanzo sul tempo, quello che fugge e specialmente quello che ritorna: ed è questo il vero dramma, il tempo che sembra passare e che invece rimane, riecheggia, ristagna, ci trascina sempre con la complicità della memoria e ci chiede il conto della non-memoria di ciò che hai fatto e che dimentichi e che lui non dimentica.
Nel romanzo, il prima e il dopo sembrano stare sullo stesso piano: è la rivincita del tempo, con cui l’autrice gioca disseminando tracce lungo le pagine, in un andirivieni che a ogni capitolo (ce ne sono 30, più alcuni non-capitoli non-numerati, come fantasmi che amplificano il senso di stordimento narrativo e cronologico) fa avanzare e indietreggiare, con la strana sensazione di condividere con i protagonisti la loro resa di fronte agli eventi della vita. Che sono eventi scanditi dal dolore, soffusi in una malinconia cosmica, dove pure ci si affanna in una vorace vitalità, aggrappati a un’esistenza piena di trappole, e dove pure in quelle trappole si finisce, cadendo. Cadendo. A cominciare dalla misteriosa (ma ben presto svelata) “caduta” del protagonista ragazzo, quella che lo rende ‘diverso’ dagli altri e che sarà la prima “sliding door” di una lunga serie disseminata di disillusioni.
La storia inizia in quei lontani ultimi giorni dell’Italia fascista, attraverso la guerra vista da lontano e le tradotte verso i lager dello sterminio toccate con mano, in quella terra antica di montagna dove essere maschi o femmine può fare la differenza, così come uomini o animali, magistrati o montanari. E anche italiani o tedeschi, in quella terra di confine che è l’Alto Adige o Sudtirolo, negli anni post-bellici del dimenticato terrorismo dei tralicci, che entra prepotente nel racconto, in quelle valli incuneate verso l’Austria.
La Storia sembra guardare da uno sfondo lontano – eppure così determinante – le piccoli ma sconvolgenti storie intrecciate dei tre ragazzini che nelle prime due pagine cercano inutilmente di liberare una faina da una tagliola, ignari delle tante tagliole della vita che li intrappoleranno e nelle quali saranno loro a intrappolare il loro stesso futuro. C’è il protagonista Giulio, il ragazzo della “caduta”, strappato ben presto dalla vivace vitalità dei suoi anni giovani e sempre più risucchiato nella tempesta in cui il rimorso si mescola con un dolente male di vivere, che nulla ha di filosofico e tutto di empirico. Quel male di vivere che scaturisce dal vivere stesso, in un mondo dove la violenza si sposa con il conformismo, che ha il volto ambiguo dei genitori e il cuore ancor più ambiguo del fratellino adorante e poi distante Vittorio, e dove la passività scivola nella resilienza, fino a diventare escrescenza della società, anonimo residuo in un letto d’ospedale.
E con Giulio ci sono i due fratelli “crucchi”, oggetti d’amore e odio, quel Peter che per un po’ sembra stare in disparte nel racconto e che a un certo punto ci troviamo a seguire in evoluzioni dove il bene e il male si scontrano, spalancando abissi repubblichini e paludi dinamitarde, e poi riaprendo squarci inattesi che ci mostrano che se le tagliole della vita non risparmiano nessuno, non lo fanno neanche i sentimenti. E con Peter c’è la sorella Andrea, la ragazza del cuore di Giulio, in una storia d’amore silenziosa, che silenzi di diverso tipo scandiscono, e fraintendimenti e opportunità, e ancora dolori devastanti e ancora resistenze inattese. E con Giulio, Peter, Andrea e Vittorio, c’è ancora altro, a cui forse potremmo dare il nome di giustizia o di rimorso, di omertà o di perdono, e che aleggia su tutto, e che si infila dentro ogni cosa rendendo tutto più impalpabile, più sottile, più dolorosamente pacificante.
La lettura di Neve d’ottobre è uno slalom tra le storie di questi personaggi in un microcosmo da cui è difficile allontanarsi. E’ uno slalom tra i loro punti di vista nei quali sei costretto a entrare, sentendoti ogni volta a disagio eppure riconoscendo ben familiare quel punto di vista. Uno slalom in un mélo dalle passioni frenate (anzi! la scrittura di Angela Nanetti si fa trasparente, come di un’osservatrice distaccata, apparentemente fredda e distante, cosa che al contrario enfatizza quelle emozioni che le parole sembrano voler minimizzare), dove tutto – troppo – cova sotto la cenere, dove tutto – troppo – sembra erroneamente gigantesco e definitivo, e dove tutto – troppo – sembra erroneamente trascurabile ed effimero.
E quando alla fine del libro arrivi all’ultima pagina in cui viene nominata per la prima volta l’espressione che dà il titolo al libro Neve d’ottobre, con il suo preciso significato, ti accorgi che sì, quel titolo amaro – eppure lieve, anzi quasi dolce – ti dà l’esatta dimensione di tutto quel che i personaggi hanno passato: vite sconvolgenti e sconvolte, eppure ordinarie. Perché quel titolo è un inganno, perché nonostante siamo tra le montagne, l’elemento motore non è la neve, ma il fuoco che arde nei cuori di tutti. E l’acqua che quel fuoco cerca di spegnere. E la terra che li inchioda tutti ai dolori quotidiani. E l’aria con la quale vorrebbero prendere il volo. Non c’è neve perché la vita stessa è neve, neve d’ottobre, e genera quella mista altalena di effimera felicità al suo arrivo, di malinconico ricordo alla sua scomparsa e di faticosa lotta con le difficoltà che porta e con i suoi trabocchetti.
Angela Nanetti, Neve d’ottobre, Vicenza, Neri Pozza, 2021, pp. 238, euro 18.