
Nel 2019/20 tre realtà culturali europee hanno realizzato un progetto comune dal titolo MareMuro, cofinanziato dal programma Europa Creativa della UE, con il contributo della Fondazione del Monte. Al termine, ho scritto per la UE un report relativo a una azione specifica, fra le tante svolte durante il progetto. Ne riporto qui una sintesi: il report completo (a cui rimando per gli approfondimenti: il documento è scaricabile in pdf) è sul sito di Academia.edu. Il progetto MareMuro dedicato ai confini e agli sconfinamenti, è stato realizzato da Teatri di Vita (Bologna, Italia, capofila), Theater X (Berlino, Germania) e Arka Center (Scutari, Albania). L’esperienza specifica di ricerca teatrale oggetto del report è stata ideata da Andrea Adriatico e ha avuto 3 esiti pubblici a Teatri di Vita: Classe 1989 (13 novembre 2019), Classe 1990 (20 febbraio 2020) e Classe 2020 (16 ottobre 2020).
Tema del progetto MareMuro è stato il confine e il conseguente sconfinamento: il mare come muro, ma anche come possibilità di attraversamento; e il muro come separazione, ma anche come invito al superamento. I termini mare e muro sono stati individuati come simbolici per trattare i temi relativi alle migrazioni e alle sue conseguenze: l’essere straniero, la società multietnica, la decolonizzazione, le differenze, ecc.
Il primo punto di analisi è stata la necessità di trovare una forma diversa per raccontare qualcosa che si presenta o deve essere presentato come diverso. Occorreva trovare una forma che fosse essa stessa coerente formalmente con il concetto espresso nel titolo MareMuro. Ossia una forma che contenesse il teatro, l’informazione, la documentazione, la partecipazione, superando i “confini” dei generi, e tutto questo senza ricadere in modalità di tendenza sulle scene contemporanee (come il teatro-documento, il teatro partecipativo, ecc.): quella che è stata definita Classe.
Un altro punto importante è stata la volontà sperimentale ed esplorativa, ossia non la creazione di “un nuovo genere teatrale” o un nuovo “stile” o un nuovo “linguaggio”, bensì la messa in cantiere di alcune ipotesi di lavoro, da verificare non teoricamente ma nella pratica e nel confronto diretto con il pubblico, cioè nell’evento performativo: ciascuno dei 3 spettacoli è stato pensato come tappa di un work in progress il cui obiettivo non era la definizione di una forma, ma il ripensamento attivo delle forme usate in teatro (e non solo) per raccontare questi temi. D’altra parte, la ricerca libera ha portato comunque, forse al di là delle previsioni, all’individuazione perlomeno di un format che può essere usato per il futuro: la Classe, appunto.

Le Classi non hanno avuto un approccio preliminare teorico, ma si sono formate nella pratica del lavoro artistico. E tuttavia, è evidente che quelle pratiche – soprattutto se rilette a ritroso, a esperimento concluso – rispondono a una riflessione su alcuni nodi chiave:
1. Performer, ovvero chi parla e/o agisce: in base a quale autorità si sta in scena… e se “eliminassimo” l’attore in quanto tale?
2. Spettatore, ovvero chi osserva e ascolta: passivo o partecipante? E quale partecipazione? E se “eliminassimo” lo spettatore in quanto tale?
3. Spazio, ovvero il contesto fisico, che inevitabilmente rispecchia anche quello sociale: la “quarta parete” come muro da alzare o abbattere, e il “golfo mistico” come mare di mediazione (allontanamento/ avvicinamento) emotivo-sensoriale tra spettatore e scena. Allora, come ripensare lo spazio?
4. Testo, ovvero di cosa parliamo: e se “eliminassimo” il testo a favore di una fluidità drammaturgica?
5. Testimonianza, ovvero il proprio corpo/parola come garanzia di autenticità: come portare in primo piano la pratica giornalistica, ma evitando che la testimonianza diventi teatro, cioè replicabile, cioè in definitiva inautentica?
6. Mediazione, ovvero il link tra noi e l’altro: dalla mediazione culturale all’idea di mare e muro come elementi ‘mediani’ tra un qui e un altrove…
7. Contaminazione, ovvero se parliamo di meticciato e di sconfinamento, allora anche il linguaggio usato deve essere meticcio e di sconfinamento: e la contaminazione incontra la fluidità…
8. Differenza, ovvero declinare le differenze secondo modelli e categorie tradizionali (etniche, fisiche, religiose, di genere, di orientamento sessuale, di abilità), ma anche entrando nelle differenze e rifuggendo dal buonismo, dal politicamente corretto fine a sé stesso…
9. Gioco, ovvero il teatro è prima di tutto un gioco: attenzione a non trasformare l’evento, che deve avere la serietà della testimonianza e dell’impegno sociale e politico, in qualcosa di lontano dal senso ludico del teatro.

Nella pratica le Classi ideate da Andrea Adriatico hanno avuto sostanzialmente due forme piuttosto diverse. La forma di Classe 1989 e Classe 2020, cioè la prima e l’ultima, ha individuato come struttura concettuale portante proprio la classe scolastica, riportando a questa impostazione l’intero evento. In entrambe il pubblico entrava nello spazio teatrale ri-scenografato come un’enorme aula scolastica, sul suono della campanella di inizio lezioni, ed entrambi gli eventi erano scanditi da una figura docente che “interrogava” alcuni studenti tra il pubblico.
Classe 1989. Oggetto specifico dell’evento era partire dal muro più emblematico dal punto di vista storico, ossia il Muro di Berlino. La “professoressa” in cattedra (Daniela Camboni, giornalista) invita una dopo l’altra alcune persone del pubblico a sostenere una “interrogazione”: Massimo Golfieri, fotografo presente nei giorni della “caduta” del Muro di Berlino; Silvia Bartolini, che è stata amministratrice del Comune di Bologna negli anni ’80; Marco Zanardi “Orea Malià”, hair stylist e creatore di tendenza degli anni ’80; Richard Kwakye, migrante del Ghana, testimone e narratore della traversata del Mediterraneo sui barconi dalla Libia all’Italia; Achille Occhetto, che fu segretario del Partito Comunista Italiano durante la caduta del Muro di Berlino, e che sancì la trasformazione del partito in seguito a quell’evento. Durante il suo intervento compaiono in video, e successivamente dal vivo, i Gemelli Ruggeri, duo comico storico che a partire dagli anni ’80 ha imperniato la sua comicità tra l’altro con la creazione di personaggi che alludono proprio al rapporto tra l’Italia e il blocco dell’Europa dell’Est, a cavallo della fine dei due blocchi. Durante l’intero evento, gli spettatori sono invitati a scrivere, su classici fogli protocollo precedentemente distribuiti, un tema sui muri: i fogli andranno poi consegnati all’uscita.

Classe 2020. Oggetto specifico dell’evento, realizzato durante la pandemia, era l’educazione e l’istruzione, con riferimento ai migranti: ovvero l’importanza di processi formativi per gli stranieri per l’inserimento e il dialogo con la loro nuova realtà sociale, ma anche l’importanza di processi formativi per i non migranti per favorire il dialogo, il confronto e l’arricchimento nel rapporto con i migranti. Secondo il modello della D.A.D. (Didattica A Distanza), il professore era presente in collegamento internet da casa sua, proiettato sullo sfondo-schermo: Eraldo Affinati, scrittore e fondatore della scuola di italiano per immigrati Penny Wirton. Affinati ha chiamato alla cattedra, dal vivo, diversi “studenti” per “interrogarli”: Tommy Kuti, cantante rap “afro-italiano”; Danielle Madam, atleta campionessa di lancio del peso, recentemente comparsa sulle cronache dei giornali per una polemica politica a proposito della sua richiesta di cittadinanza italiana; l’attore migrante Moussa Molla Salih del Benin, insieme ad Antonella Agnoli, operatrice e consulente in progettazione di spazi e servizi bibliotecari e culturali, che lo ha accolto a casa; Enrico Fornaroli, direttore dell’Accademia di Belle Arti di Bologna; e Bepin Kolvataj, giornalista albanese (insieme ai partner di Arka Center). Sempre in chiave D.A.D. è intervenuta la Ministra della Pubblica Istruzione italiana Lucia Azzolina con un “compito” in video, realizzato sulla base di domande precedentemente fornite e indirizzato espressamente agli spettatori dell’evento. E infine, il Theater X ha realizzato una performance teatrale sui temi del colonialismo e del post-colonialismo.

La serata intermedia Classe 1990 ha avuto una forma completamente diversa, obbligando peraltro a riconsiderare il significato del titolo stesso “classe”, che qui fa riferimento anche ad altri significati, come nell’espressione “di classe” per indicare l’esibizione di eleganza, ma anche per indicare raggruppamenti omogenei di persone, e infine con allusione alle differenze sociali. Classe 1990 fa riferimento al voguing, linguaggio di rivalsa nato nelle neglette comunità LGBT nere e ispaniche di New York degli anni ’70 e ’80, portato all’attenzione popolare proprio nel 1990 da Madonna con la canzone Vogue, e ritornato prepotentemente attuale con la serie tv Pose e il docufilm Paris is burning. Si tratta sinteticamente di sfilate che alludono, più o meno ironicamente, al mondo della moda (e perciò delle classi sociali ‘alte’) in cui i partecipanti si sfidano di fronte a una giuria, interpretando in modo originale e spesso eccessivo (nei vestiti, nella gestualità, nella performance) precisi temi precedentemente indicati. Quindi: omogeneità dei gruppi partecipanti (classi), sfide sociali (classe), gioco ironico e autoironico sull’eleganza (di classe).
Nel nostro caso lo spazio viene ridisegnato esattamente come una ballroom da voguing, ovvero una zona centrale per le sfilate dei partecipanti (con gli spettatori sui due lati lunghi della passerella), un retroscena che consente ai partecipanti di cambiarsi di vestito tra una sfilata e l’altra, un podio con la giuria e il maestro di cerimonie che lancia le categorie e invita i partecipanti a sfilare. I partecipanti sono suddivisi in 8 diverse “case”, secondo la terminologia classica del voguing (houses): artisti (tra cui il Theater X e la compagnia Tra I Binari) e non artisti, con diverse identità (cisgender, transgender, fluid) e orientamenti sessuali, di diversa nazionalità (Italia, Germania, Serbia, Mali, Gambia, Iran, Palestina, Cina), in diverse condizioni di cittadinanza (cittadini di prima generazione, migranti, richiedenti asilo) e di età diverse. La serata si è conclusa con un ballo generale che ha unito tutti i partecipanti e gli spettatori, in una fusione comunitaria di differenze.

La pratica in chiave esplorativa dei linguaggi e delle modalità performative, suggerita da Andrea Adriatico, ha consentito di rispondere ai nodi principali su cui era necessario e stimolante intervenire:
1. Performer: sulla scena sta una varietà di persone in quanto tali e non in quanto personaggi. Siamo all’interno di un àmbito vasto di teatro-documento, dove però chi sta in scena si sottrae alla sua “spettacolarizzazione”. Nel flusso dei testimoni si insinuano schegge spettacolari: sketch, monologo, canzone rap, azione teatrale;
2. Spettatore chiamato a una presenza attiva, sollecitato sia nella sua collocazione fisica, in una continua decontestualizzazione o ricontestualizzazione: lo spettatore è lo “straniero” che si trova inserito in un contesto che all’inizio non ha chiaro: un’esperienza di estraneità, senza potersi “nascondere” nell’anonimato di una sala teatrale al buio;
3. Spazio: la reinvenzione dello spazio è la chiave di volta dell’intera ricerca, e ciò che rende immediatamente identificabile l’evento, cioè l’aula scolastica;
4. Testo: la vera drammaturgia è quella del palinsesto. Entrate e uscite, domande e appunti costituiscono una traccia di lavoro continuamente messa alla prova nel momento stesso in cui l’azione accade, facendo degli errori il punto di forza virtuale e concettuale rispetto all’equilibrio tra autenticità e finzione;
5. Testimonianza: le testimonianze arrivano come schegge di autenticità in un contesto di inautenticità. Anche nel voguing: quanta autenticità sta nel proporsi in una sfilata, giocando con gli stereotipi e con la propria identità?
6. Mediazione: in tutte e tre le classi è sempre presente una persona di mediazione giornalistica. La chiave giornalistica, giocata in senso leggero e ludico, è strategica per un approccio che esalti l’importanza dell’informazione, in una sorta di teatro di reportage;
7. Contaminazione: teatro, inchiesta, musica, video, cabaret, il mix dei linguaggi riflette il meticciato da una parte e la destrutturazione dall’altra;
8. Differenza: le differenze si trasformano in comunità molteplice;
9. Gioco: tutto questo si regge grazie all’approccio leggero e ludico, che è coinvolgente sicuramente nella serata più giocosa (il voguing), ma che si insinua anche nelle altre due serate ‘scolastiche’. Chiave stilistica principale è il pop.

La ricerca sul modello della classe teatrale, nelle due alternative esplorate, ha dimostrato nell’immediato la possibilità di affrontare in teatro argomenti seri e complessi (il muro di Berlino, l’educazione dei migranti, le differenze…) senza dover ripercorrere strade già battute, e rinunciando ad approcci prevedibilmente seriosi e retorici; e in prospettiva la possibilità di affinare e migliorare alcune intuizioni e nel complesso la forma e la pratica.
Vanno meglio individuate e affrontate alcune criticità e/o possibilità, tra cui la rigidità della struttura e dello spazio (che rischia di diventare una gabbia dopo la sorpresa iniziale); la possibilità di ulteriori inserti (per esempio, materiale video o musicale) e di ulteriori giochi sul tema scolastico; il coinvolgimento degli spettatori (interrogazioni ‘vere’?); il feedback degli spettatori (come raccogliere in modo originale ed efficace le loro reazioni?), ecc.
Di fatto, comunque, la sperimentazione, realizzata a partire dall’idea di Andrea Adriatico, di uno – anzi, di due modelli performativi che possiamo chiamare teatri di “classe” (anche se il secondo è in sostanza il modello del tradizionale voguing) – ha offerto numerosi punti e spunti di riflessione e buone potenzialità per il proseguimento di una feconda pratica di ricerca artistica-sociale. In particolare, la classe, nell’esperienza dei due eventi ‘scolastici’, si configura a metà tra un format elastico e un trans-genere performativo di documentazione, informazione e divertimento.
