
In una delle sue ultime lettere, datata pochi mesi prima di morire, Bernard-Marie Koltès scrive: “Con così tanti riflessi mescolati attraverso lo specchio, cosa resta dell’uomo?”. Sta parlando dei riflessi su una fotografia non proprio nitida, ma la domanda rimbalza oltre l’episodio e si trasforma in interrogazione sulla realtà dell’autore, di ogni autore. Le opere di uno scrittore che con pochi testi ha dato un’impronta indelebile alla drammaturgia europea della sua epoca e oltre, il mito di un artista raffinato e al tempo stesso dall’apparente aria bohémien, cultore eccellente della lingua e inarrestabile viaggiatore in Africa e America, omosessuale e amante del reggae e delle arti marziali, devoto a Maria Casarès e sodale di Patrice Chéreau, infine ucciso dall’Aids a soli 41 anni, bloccando per sempre in un’effervescente e vagabonda giovinezza la sua vita e la sua opera: sono tanti riflessi sovrapposti a costruire un’icona e una leggenda letteraria, quasi al pari dell’adorato sempre-giovane Rimbaud. Ma cosa resta dell’uomo?
Una piccola risposta sta forse in questo straniante epistolario tradotto in italiano da Giorgia Cerruti per Cue Press, che della sua biografia racconta dettagli curiosi, dei suoi sentimenti rivela sprazzi fulminanti e della sua arte fa trapelare alcune stimolanti tracce. E ancora l’uomo ci sfugge. Com’è giusto che sia, soprattutto per chi ha fatto della fuga, del nascondimento, dello sradicamento, dell’inquietudine, dell’ora incerta e segreta del crepuscolo in cui “plus rien n’est obligatoire qu’un rapport sauvage dans l’obscurité”, i compagni della sua opera e, forse, della sua vita. E però, ciò che più avvicina questo epistolario all’uomo Koltès, con tutte le sue omissioni e contraddizioni, è il fatto di non essere letterario e di non essere stato scritto per i posteri, ma per la reale e concreta esigenza, spesso relativa a questioni spicciole, di comunicare con i suoi interlocutori. Invadendoci di tenerezza alla lettura delle prime righe ai genitori, all’età di neanche 7 anni, per poi accompagnarci in quell’imprevedibile ottovolante che è la vita, dove i tormenti e le indecisioni dell’adolescente lasciano il posto alle ambizioni teatrali del giovane, dove le scoperte di altre lingue – pervicacemente inseguite e imparate – si accompagnano alla trepidazione per gli innumerevoli incontri sessuali (per i quali Koltès usa sempre la parola amore), dove i viaggi spalancano orizzonti geografici e antropologici ma soprattutto umani e diventano percorsi di conoscenza dell’altro ma soprattutto di sé, del suo essere perennemente “scisso tra il sogno di una vita comoda (…) e violente visioni metaforiche come una scala maya che sale vertiginosamente, sotto la luna piena”, come scrive al fratello François dal Guatemala.

I fratelli e tutta la famiglia, ma soprattutto i genitori, anzi la madre: è lei la destinataria privilegiata a cui con maggior trepidazione si rivolge Bernard, con immutato amore per oltre trent’anni, ma soprattutto con immutato atteggiamento di confidenza. Attraverso queste lettere la madre ci appare come uno specchio che rivela a Koltès non solo le radici o il sentimento filiale, ma anche ciò che al tempo stesso egli desidera e rigetta, quel calore borghese senza il quale non si spiegherebbe non solo il potente affresco familiare di Le retour au désert, ma neanche quell’adesione estrema al mondo altro e reietto che inizia a inseguire e rappresentare fin da La nuit juste avant les forêts: e non è un caso che proprio su questa sua folgorante opera-spartiacque si concentrino alcune importanti lettere alla madre. Perché Germaine Welsch in Koltès non è solo la mamma, ma è soprattutto – leggendo queste lettere – l’imprescindibile cartina di tornasole della propria personalità: è stupefacente come Bernard si apra alla madre più che agli amici, fin da piccolo, nel tentativo di comprendere meglio sé stesso, riuscendo a far precipitare i sentimenti nelle parole scritte, come quando a 13 anni confessa la sua gelosia nei confronti dei fratelli in una lucidissima auto-analisi, o a 15 anni si definisce “invecchiato anzi tempo”.
È davvero esemplare e inatteso un attaccamento così potente alla famiglia, a cui scrive spesso, perfino immediatamente dopo aver concluso una telefonata, così come a pochi altri amici intimi con cui corrisponde per lunghissimi anni, come Bichette e Madeleine, conosciute in tenera età, e Nicole, amica di famiglia. Uno spaccato di affetti personali che solo a tratti – ma incisivi e illuminanti – incontrano la letteratura e il teatro, e più spesso piccoli momenti d’intimità, grandi avventure o le infinite e permanenti questioni economiche (probabilmente l’argomento più ricorrente in tutto l’epistolario), che spingono Koltès a chiedere continuamente prestiti in condizioni drammatiche, magari con pochi centesimi in tasca in posti sperduti in Centramerica, e a essere lì lì ogni volta (ma senza crederci mai veramente) per mollare ogni velleità teatrale e rientrare nei ranghi di una vita e di un mestiere placido e sicuro.

Ma ciò che emerge con maggior forza, alla luce dell’opera drammaturgica, è il riflesso di una delle caratteristiche più potenti e caratterizzanti del suo teatro: i luoghi. I suoi personaggi, le parole che dicono, i sentimenti che esprimono e le azioni che compiono: tutto nasce dai luoghi, che dai titoli delle opere (città, foresta, quai, deserto, campi) rimbalzano negli ambienti, talmente potenti da condizionare le vite e le lingue. Case, strade, cantieri, ma anche luoghi indeterminati eppure gravidi della loro fisicità sospesa, tutti spalancati all’andirivieni di personaggi che da un altrove vengono calamitati a muri e angoli o che da quei muri e da quegli angoli sembrano scaturiti. Luoghi aperti e claustrofobici al tempo stesso, e al tempo stesso ambienti e proiezioni di quei personaggi e delle loro parole. Anche le lettere di Koltès pullulano di luoghi, ossessivamente, come a rivelare che il legame con il luogo non sia un mero dispositivo drammaturgico e letterario, ma prima di tutto una realtà esistenziale e autobiografica. Non solo il Canada, New York, Praga, la Nigeria, il Mali, il Messico, il Guatemala, il Brasile… ma anche Metz dov’è nato il 9 aprile 1948, Strasburgo dove ha vissuto da giovane, Parigi con cui ha un ambiguo rapporto di amore e diffidenza, e soprattutto il piccolo paesello di Pralognan in Savoia, dove i Koltès avevano uno chalet, e che ritorna ossessivamente nelle lettere come aspirazione di buen retiro ma anche come maledizione e soprattutto come incombenza. Perché ciascuno di questi luoghi non è solamente geografico, ma vive di una concretezza quotidiana che a tratti sembra avere un valore simbiotico per l’autore. Per un viaggiatore con lo zaino sempre in spalla e la spinta della libertà (“mi sento così incapace di restare due mesi in un posto, senza un minimo di spaesamento”, scrive 22enne a Bichette), i luoghi e la loro stabilità sono forse il bene più prezioso: quelle camere in cui entra ed esce, chiedendole in prestito, affittandole, sporcandole (con richiesta di scuse), scambiandole… sono le scenografie di un epistolario nomade che aspira alla certezza del porto sicuro, eppur lo teme.
L’epistolario offre anche molte occasioni per comprendere meglio non solo l’uomo ma anche l’autore. È emozionante leggere la lettera in cui, a 20 anni, nel 1968, confida alla madre per la prima volta di aver deciso di mettere la sua vita “al servizio del Teatro”, dopo aver visto la Medée recitata da Maria Casarès: “corro questo rischio con felicità, malgrado l’abisso che mi attende se fallisco”. È come se Koltès acquisisca riga dopo riga la consapevolezza della propria strada, come se la scrittura stessa sia strumento di conoscenza di sé e non semplice traduzione scritta di ciò che ha già pensato. Allo stesso modo assistiamo, dietro le quinte, alla nascita della sua compagnia teatrale (non a caso nominata con un luogo, il Théâtre du Quai), con la quale a 22 anni riesce a portare in scena la sua prima opera, Les amertumes, ispirata a Gorki. Lo accompagnamo da ragazzo nel suo impegno nelle iniziative cattoliche, da ex allievo di una scuola gesuita, e poi nella sua entusiastica adesione al partito comunista e nello studio del marxismo, che lo stimola a una visione più lucida nei confronti degli altri e degli ultimi, non senza i tormenti e i sensi di colpa dell’intellettuale borghese di fronte ai proletari (ancora una volta è la madre a raccogliere i suoi pensieri al riguardo, in una lunghissima e bellissima lettera, il 26 aprile 1976). Lo vediamo rifuggire un ambiente teatrale in cui non si sente a proprio agio, e lo vediamo anche essere rigettato dalla società letteraria quando cerca di entrarvi con il romanzo La fuite à cheval très loin dans la ville, bocciato dagli editori nel 1976 perché “la forma non è sufficientemente classica, né apertamente d’avanguardia – stile ricerca linguistica – da rischiare di piacere”, come annota amaramente.

Non mancano considerazioni di poetica che successivamente rimbalzeranno in dichiarazioni e interviste, ma che qui sembrano prendere forma in modo immediato, quasi nascendo dalla scrittura stessa della lettera. Come il rapporto tra il sentimento e la sua espressione verbale, che sarà essenziale nel suo stile: “devi renderti conto che più una cosa da dire è importante e essenziale, più è impossibile dirla: si ha cioè bisogno di parlare di altro, per farsi capire con altri mezzi, perché le parole non sono più sufficienti”, spiega ancora una volta a sua madre nel settembre 1977, donandole, per così dire, una delle pagine più lucide nella definizione della propria poetica. Così come al regista Hubert Gignoux, suo mentore, regala in una lunghissima lettera che ha il respiro di un poema conradiano, scritta dal villaggio nigeriano di Ahoada, un emozionante concentrato in cui l’adesione agli ultimi e la fascinazione e l’attrazione per i neri diventano occasione per ridefinire il concetto di straniero e per ridefinire il suo pantheon ideale (“Sento Genet nell’aria!”), al cui apice sta sempre il poeta adolescente che a 24 anni sceglie l’Africa e il silenzio. Nelle lettere scorrono in primo piano o in lontananza le sue scritture teatrali, da Salllinger e La marche ai più maturi Combat de nègre et de chiens, Quai ouest, Dans la solitude des champs de coton fino all’ultimo Roberto Zucco… e, negli ultimi tempi, scorrono le sue sfuriate contro i registi che mostrano di non capire che i personaggi neri di Combat o di Retour devono essere interpretati da attori neri e non da bianchi con la faccia dipinta, ribadendo così, al tempo stesso, la profondità e necessità delle sue scelte artistiche e la visibilità e imprescindibilità dello straniero e del diverso.
La lettura di questo epistolario si può dire che non aggiunga realmente nulla di davvero nuovo alla comprensione dell’opera di Koltès. Eppure è necessaria, perché ci offre gli elementi per farci strada tra i riflessi che mascherano l’uomo, e in definitiva l’autore. Ce lo mostrano nelle sue fragilità di giovane artista alla ricerca di un posto al sole e di giovane uomo per il quale il mondo è troppo piccolo per la sua infinita sete di vita e di conoscenza. Bernard, o anche Manuel, o anche Cheik Abdallah, come talvolta si firmava reinventando altri sé, in una moltiplicazione che non significava altre identità ma altre parole per raccontare la sua straripante identità di figlio, fratello, amico, amante, artista e cittadino del mondo. Assalito da un “disequilibrio permanente dello spirito, nel quale la stabilità non solo è un tempo morto ma è una vera morte”, come scrive alla madre, inseguendo al tempo stesso la vita e la morte in quel “Triangolo delle Tenebre – New York – Lagos – Salvador de Bahia, luoghi in cui ho voglia e desiderio di morire”, come scrive a Michel Guy, direttore del Festival d’Automne e, a quanto pare da queste tracce, ispiratore dei suoi viaggi più emozionanti: “Da Salvador di tutti i Santi e di tutti i Peccati, la ringrazio per i Santi e per i Peccati”. Sempre dosando le parole, che sembrano fluire con naturalezza estrema dalla sua penna, mescolando passione smodata e saggezza sorniona, fino all’ultimo. Fino all’ultima lettera, composta da sole 6 parole, pochi giorni prima della morte che arriva il 15 aprile 1989. Una lettera che racchiude, in una lingua straniera, una domanda che concentra dolore e speranza, profondità e leggerezza, tragedia e ironia, rimescolando in una manciata di caratteri un intero mondo e un intero corpus teatrale, dall’emigrato che “le moindre souffle de vent nous ferait décoller” all’anti-eroe assassino che basta un “vent d’ouragan” per volare verso “le sexe du soleil” e scomparire con tutta la sua furente bellezza. In God we trust. Do We?
Questo testo è stato scritto come prefazione alla pubblicazione della traduzione italiana delle Lettere di Bernard-Marie Koltès, traduzione di Giorgia Cerruti, ed. Cue Press, 2022.