I pesci rossi di David Foster Wallace

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“Overload” (foto Matteo Tortora)

Dopo aver scritto poche righe sul nuovo spettacolo di Sotterraneo Overload, mi è arrivata una mail e sono andato a leggerla. Poi ho ripreso, ma incuriosito da qualcosa che io stesso avevo scritto sono andato a cercare meglio su Google. Poi ho ripreso e dopo poco mi sono interrotto per dare un’occhiata a Facebook… Mi sono reso conto ormai da qualche anno della sempre maggiore frammentazione del mio periodo di scrittura: se prima riuscivo a scrivere ininterrottamente anche per ore, da tempo la mia scrittura è continuamente interrotta dalla facilità con cui posso – tra un pensiero e l’altro, tra una frase e l’altra – consultare qualcosa (di pertinente o no) grazie a internet. Un’esperienza che penso di condividere con tutti i ‘digitali’ che usano abitualmente e intensivamente internet e le sue possibilità. Una scoperta empirica che trovo suffragata da una ricerca della Microsoft di due anni fa che rivelò un dato piuttosto sorprendente: la capacità media di attenzione continuata degli esseri umani digitalmente attivi era scesa in 15 anni da 12 secondi (già incredibile di per sé) a 8 secondi. Considerando che la capacità di attenzione di un pesce rosso è di 9 secondi ci sarebbe di che allarmarsi. Eppure i ricercatori non la buttano sull’allarmante, anzi: la durata dell’attenzione si riduce, ma la capacità di fare contemporaneamente più cose aumenta, e questo risponderebbe a un’evoluzione antropologica evidentemente necessaria per vivere nell’epoca contemporanea. Questione evolutiva che evidentemente non si pone per i pesci rossi. E neanche per la pesciolina Dory di Alla ricerca di Nemo, che non rimpiazzava il deficit d’attenzione e di memoria con il multitasking, ma con un approccio alla vita inossidabilmente ottimistico e gioioso. Nove secondi ma vissuti appieno, verrebbe da dire, mentre sui nostri otto secondi graverebbe un sovraccarico di compiti e di sollecitazioni che rischiano di creare l’effetto opposto e di farci piombare nello stress, nell’ansia, nel senso di inadeguatezza.

Sotterraneo 2
“Overload” (foto Filipe Ferreira)

All’overload, al sovraccarico, Sotterraneo ha dedicato, appunto, il suo ultimo spettacolo, il cui meccanismo trasferisce in termini di azione teatrale le dinamiche di approccio all’esperienza cognitiva – o semplicemente relazionale – contemporanea: durante una scena compare un link e il pubblico può decidere di ‘cliccarci’ idealmente sopra, ben sapendo che questo comporterà uno switch, e quindi l’abbandono del discorso corrente per seguirne un altro. Insomma, Overload è uno spettacolo ipertestuale che racconta nel microcosmo della scena la trasformazione del mondo in ipertesto, e quindi la trasformazione della nostra esperienza in un terreno accidentato di continue interruzioni, che frammentano la conoscenza e al tempo stesso riducono sempre più la durata dell’attenzione. Non è un caso che l’unico elemento scenico permanente dello spettacolo sia una vasca con due pesci rossi, la cui attenzione a brevissimo termine è l’inevitabile pietra di paragone della nostra: la loro capacità di attrarre gli sguardi degli spettatori (richiamata anche durante lo spettacolo da una voce fuori scena) corrisponde all’attrazione che può generare uno specchio. Perché poi i pesci non solo non hanno attenzione, ma non hanno neanche percezione del loro ambiente: stanno immersi in qualcosa che non possono riconoscere, come noi siamo immersi (quasi) inconspevolmente in un contesto pervasivo che sta mutando la nostra evoluzione. Ci sono due giovani pesci che nuotano insieme e incontrano un pesce più anziano che dice: “buongiorno, ragazzi, com’è l’acqua?”; i due continuano a nuotare per un po’, e poi uno dei due chiede all’altro: “ma cosa diavolo è l’acqua?”. La storiella è stata raccontata da David Foster Wallace di fronte agli studenti del Kenyon College. E con questo abbiamo completato l’evocazione dei protagonisti di Overload: c’è un sedicente Wallace che ci racconta un certo giorno di settembre (il mese in cui lo scrittore si è suicidato), ci sono i due pesci rossi che non sanno di nuotare in un preciso ambiente, e ci sono gli studenti che – sempre in quel discorso – Wallace sprona verso la libertà della conoscenza, che “richiede attenzione e consapevolezza e disciplina”: gli spettatori.

David Foster Wallace
David Foster Wallace durante il discorso al Kenyon College

Overload è un concentrato di trabocchetti. Il sovraccarico di azioni e visioni incalzanti non racconta solo la nostra esperienza di attenzione corta e di ipertestualità che è l’oggetto dichiarato della spettacolo, ma ci insinua il dubbio su ciò che sta ‘dietro’ l’evoluzione di quel sistema cognitivo nel quale siamo immersi senza (quasi) rendercene conto. Perché tutto è ‘reale’ e ‘fittizio’ al tempo stesso: che è concetto fondante del teatro in sé e per sé, ma qui assume l’ulteriore aspetto di un ritratto amaro della contemporaneità.

Lo spettacolo inizia con qualcuno che dice di essere e non essere David Foster Wallace e di voler raccontare quella giornata di settembre. E poi c’è qualcun altro che ci spiega le regole dello spettacolo: alla comparsa di un determinato segnale, il pubblico potrà decidere se cambiare l’andamento previsto e far accadere qualcos’altro: basta che almeno uno spettatore si alzi in piedi. In altre parole, il segnale funziona come un link ipertestuale che attiva un nuovo contenuto. Durante il discorso di Wallace, assistiamo così – grazie all’intervento decisivo del pubblico – all’attivazione di altri contenuti, che corrispondono sempre ad azioni sorprendenti, destabilizzanti, travolgenti (anche in senso letterale, come può sperimentare lo stesso Wallace, gettato a terra da un giocatore di football): apparizioni incongrue, ma determinate da quei link, e quindi strettamente connesse al discorso (per esempio, Wallace parla di acqua, ed ecco comparire una giornalista in mezzo a un’alluvione). Il gioco infinito dell’autore di Infinite Jest si ritorce contro di lui frammentando l’infinito nella finitezza di un discorso ridotto a brandelli (con una tecnica narrativa forse più vicina al classico cut-up), e perciò impossibile da seguire, per colpa di un tripudio ludico – di jest, appunto – che dovrebbe accrescere la nostra conoscenza su ciò che sta dicendo e invece la diminuisce fino alla sua completa dispersione. E’ questo il meccanismo ipertestuale che ci accompagna quotidianamente? L’illusione di un processo cognitivo di arricchimento infinito che invece si manifesta in una serie di deviazioni che restringe non solo la nostra durata d’attenzione ma la nostra stessa conoscenza? Insomma, è questo l’infinite jest dei nostri tempi, cioè il gioco infinito di tanti frammenti che costruiscono il caos della coscienza contemporanea? Alas, poor Yorick! I knew him, Horatio, a fellow of infinite jest, of most excellent fancy, dice il principe Amleto stringendo il teschio del buffone di corte nella più iconica delle scene shakespeariane: dov’è finito quel gioco infinito, dice il Principe che di “essere” e “non essere” se ne intendeva, se non nella finitezza della morte? E dove può essere ricollocato se non in una cornice di finitezza e di morte, come quella proposta da Overload, che inizia con la presenza in scena di uno scrittore che dichiara la propria morte e finisce ancora (come vedremo) con la morte?

 

Sotterraneo 6
“Overload” (foto Filipe Ferreira)

Dunque, il discorso di Wallace è spesso interrotto dal pubblico che, alzandosi dalla poltrona per un istante, determina, al momento indicato, l’avvio di un link e l’apparizione nella scatola scenica di altri ‘contenuti’: pescatori, piloti, ballerini di breakdance, due tenniste (un richiamo di contenuto narrativo al libro di Wallace), e ancora un nuotatore, un soldato greco, una turista, e così via: una macedonia di personaggi che si attivano in microstorie, il cui senso non sta nella storia che portano, ma nella pura presenza di disturbo in sé e per sé. Un vortice incalzante che coinvolge fisicamente il pubblico – perché ‘attraversato’ dai personaggi o trascinato in scena a ballare o spinto a lanciare ortaggi sugli attori – e che arriva al suo apice in un frullato ormai incontrollato, dove a Wallace si sostituisce per pochi minuti Stephen King e dove esseri umani e animali (galli da combattimento o esseri sirenoidi come un uomo con testa di pesce) si avvicendano apparentemente senza più un rapporto causale con il filo principale del discorso. Finché i cinque attori compaiono sulla scena spogliati dei loro personaggi per raccontare, in una lunga scena conclusiva, cosa è successo dopo la fine di questo spettacolo: sono usciti da teatro, sono saliti in auto e hanno fatto un incidente dove sono morti tutti.

La fine dello spettacolo coincide, insomma, con una scena anomala che si sottrae al meccanismo ipertestuale dichiarato all’inizio e condotto fino a quel punto. Il racconto oggettivo/soggettivo (gli attori sono i personaggi – che peraltro sono gli attori stessi – ma al tempo stesso sono i narratori esterni di ciò che avviene) mette a fuoco una piccolissima storia banale che improvvisamente diventa ‘apocalittica’ in quanto racconta una “fine del mondo” (la morte di tutti) e in quanto rivelatrice. Ma rivelatrice di cosa? Dell’irruzione della realtà alla fine di un racconto tutto finto: è il testo che interrompe e si sostituisce all’ipertesto. Come dire: viviamo in una realtà in cui il continuum naturale è frazionato a causa delle mille sollecitazioni che riceviamo e che ci portano a un deficit d’attenzione, ma nel momento in cui la realtà si impone nella sua dimensione definitiva e assoluta non ci sono più scorciatoie, non ci sono più link che ci portino altrove: la vita va vista in faccia, e porta – naturalmente – alla morte.

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“Overload” (foto Filipe Ferreira)

Questo è interessante anche perché ricade proprio sullo spettatore. Contrariamente all’assunto di partenza (e cioè la riduzione della capacità di attenzione), l’ultima scena non soffre il minimo calo d’attenzione da parte del pubblico, e dunque nega ciò che è stato ‘dimostrato’ fino ad allora. Nel senso che, se c’è qualcosa di vero e vitale da raccontare, allora nessuno riesce a sottrarsi dal rivolgere a esso un’attenzione totale. Partendo allora dalla fine e riguardando indietro, occorre riconoscere che il gioco dei link, delle interruzioni, dell’attenzione intermittente, era dovuto all’assenza di “verità” e di “realtà”, come se la nostra abdicazione alla tirannia dell’ipertesto nasca dall’inadeguatezza di quel testo a farsi riconoscere come vero. Del resto, il presunto Wallace lo dice fin dall’inizio di essere già morto, e quindi di non essere lui: dunque si istituisce fin da subito un discorso di “falsità”, che inevitabilmente comporta dal punto di vista concettuale la “distrazione”, laddove il discorso di “realtà” della scena finale non può non scatenare invece un’attenzione assoluta.

Allora, se è così, lo spettacolo ha come oggetto vero non tanto il dichiarato discorso sulla durata dell’attenzione, ma piuttosto l’espressione di una esigenza di realtà e di verità. Verità che poi, a sua volta, è sottoposta alle regole del teatro, e cioè all’uso di strumenti ‘finti’ per esprimere il ‘vero’. Infatti, nella scena finale (quella che conterrebbe la ‘verità’) gli attori fingono platealmente, usando perfino una sorta di pantomima. E raccontano in modo oggettivo, quasi cronachistico, la propria morte, partendo da dati assolutamente realistici, anzi di prefigurazione futura di ciò che accadrà – anzi “è accaduto” – dopo la conclusione dello spettacolo che stiamo vedendo: scatenando, quindi, un’ulteriore vertigine temporale-concettuale, che potrebbe finire con il trascinare lo spettatore nella prefigurazione di cosa succederà a lui stesso una volta uscito da teatro.

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“Overload” (foto Matteo Tortora)

Ma c’è un altro punto particolarmente significativo, che riguarda il meccanismo con cui si attuano le potenzialità ipertestuali che precedono la scena finale: in altre parole, la richiesta fatta agli spettatori di alzarsi in piedi per innescare lo switch. Una vera beffa, un vero jest. Perché è ovvio che ci sarà sempre almeno uno spettatore che, al palesarsi del link, si alzerà per innescare il cambio di scena, tant’è vero che gli attori in quinta sono pronti a intervenire esattamente con i costumi e per l’azione adatta al link sulla parola che crea lo switch. Insomma, Sotterraneo dice al pubblico: “se volete, alzatevi così inneschiamo una deviazione, altrimenti la scena continua con il semplice monologo di Wallace”, ma sa già che il pubblico vorrà sempre cambiare. E se il pubblico vuole sempre, allora non è realmente libero. La libertà richiede attenzione e consapevolezza, diceva Wallace agli studenti nel discorso iniziato con i pesci rossi. Ma gli studenti/spettatori di Overload, dopo aver abdicato all’attenzione per cedere con divertimento al rutilante avvicendarsi di scene da videoclip, rinunciano anche alla consapevolezza: il pubblico avverte di avere una libertà e un potere, che in realtà gli sono stati concessi dai direttori del gioco, anzi che non ha proprio perché non fa altro che agire esattamente come è stato già previsto. Lo spettatore che si alza non lo fa liberamente per cambiare la scena, ma obbedisce al richiamo come una scimmia ammaestrata. E allora, Overload – ancora una volta – ha come oggetto vero non tanto il dichiarato discorso sulla durata dell’attenzione, ma piuttosto un discorso sulla manipolazione.

E qui si ritorna proprio all’attenzione: cos’è se non manipolazione il sistema mediatico-connettivo che ci porta a cambiare sempre rispetto a ciò che stiamo facendo? In modo da non approfondire mai? In modo da non ascoltare mai davvero? In modo da non capire? In modo da credere di avere la libertà di decidere ciò che altri hanno già deciso per noi?

 

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“Overload” (foto Filipe Ferreira)

Dopodiché un altro ulteriore ragionamento innescato da questo spettacolo potrebbe essere che il Sotterraneo stesso sia… manipolato. In fin dei conti, Overload, che dovrebbe ‘denunciare’ il sistema di manipolazione del processo cognitivo ipertestuale che porta al calo di attenzione, è a sua volta ‘manipolato’ da questo sistema, perché lo spettacolo è costruito in modo perfetto per poter essere fruito proprio secondo i meccanismi dell’attenzione ridotta, del bombardamento di immagini e situazioni che irrompono frazionando la continuità. Insomma, per ‘denunciare’ questa cosa il Sotterraneo la assume nel linguaggio stesso e quindi ne è parte. E allora, la scena finale ‘apocalittica’ può anche essere letta come un tentativo di sottrazione da questo sistema: sì, è vero, ci siamo dentro anche noi, ci siamo resi conto che quello che abbiamo fatto è proprio quello che non ci piace, ma ormai nessuno può più sfuggire a questa logica (neanche voi spettatori che vi alzate per interrompere), e allora l’annullamento è l’unica soluzione… Discorso forse un po’ ‘nichilista’ e per certi versi anche un po’ pasoliniano: nel momento in cui mi rendo conto che l’omologazione (diceva Pasolini) ha vinto, non ho più speranze e l’unica possibilità espressiva è la visione apocalittica della realtà (Salò). E quindi la scena ‘vera’ e ‘apocalittica’ dell’incidente mortale che ha ucciso/ucciderà tutti gli attori dopo lo spettacolo si può anche leggere – nel paradosso temporale e logico nella quale è inscritta – come un riconoscimento del paradosso costituito dall’impossibilità di sfuggire da quel sistema (ricordate i due pesci rossi di Wallace nell’acqua che non sanno cos’è?). Proprio quel sistema che ci porta a una mancanza di attenzione continua (e quindi di annichilimento delle facoltà intellettuali e di pensiero… e quindi di azione: azione esistenziale, ma anche politica). E la volontà di sottrazione a questo sistema, anziché prefigurare una “rivolta” o un’alternativa, arriva a porre solo una sottrazione, anzi una auto-sottrazione, quella definitiva. Proprio quella compiuta da David Foster Wallace, in un giorno di settembre di qualche anno fa.

 

 

Overload concept e regia Sotterraneo; in scena Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati, Giulio Santolini; scrittura Daniele Villa; luci Marco Santambrogio; sound design Mattia Tuliozi; props Francesco Silei; grafiche Isabella Ahmadzadeh; produzione Sotterraneo; coproduzione Teatro Nacional D. Maria II nell’ambito di APAP – Performing Europe 2020, Programma Europa Creativa dell’Unione Europea. Prima rappresentazione: Lisbona, Teatro Nacional D. Maria II, 12 ottobre 2017.

Visto a: Modena, VIE Festival, Teatro delle Passioni, 22 ottobre 2017.

 

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