Generazione Scenario, ergo sum

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“Un eschimese in Amazzonia” (foto Stefano Vaja)

Ogni due anni la Generazione Scenario, ossia il gruppo di giovani vincitori del Premio Scenario per i nuovi linguaggi della scena (il più longevo, arrivato nel 2017 al suo trentennale), offre non solo un ventaglio ristretto di nomi che “saranno famosi” a cui dare un’occasione significativa di crescita e visibilità al tempo stesso, ma anche la possibilità di cogliere piccole tendenze “di senso”, che sono il polso di una società artistica ma anche della società tout court. Se questa premessa è vera, allora possiamo dire che la Generazione Scenario 2017 ha un comune denominatore, illuminante: l’affermazione dell’identità. I quattro progetti vincitori, arrivati dopo un anno – tanto dura il lungo percorso del concorso – all’esito conclusivo e al debutto, ci raccontano di artisti che hanno deciso di portare sulla scena storie e meccanismi di affermazione dell’identità. Un’indicazione su cui riflettere, anche riguardando i palmarès passati. Due anni fa i quattro della Generazione Scenario portavano in scena, con perfetta coordinazione, quattro storie di disadattamento sociale, mentre la Generazione 2013 era tutta proiettata verso temi più o meno attuali da “denuncia”. In tre edizioni, insomma, siamo passati dal racconto su altro da sé al racconto sul sé. Non che il Premio Scenario sia automaticamente la lente attraverso cui leggere tutto il giovane teatro italiano e le sue tendenze, ma è certamente un osservatorio privilegiato, e le direzioni mostrate con tale nettezza nelle sue ultime tre edizioni non possono essere trascurate.

La Generazione Scenario 2013 si è formata durante il 2012, l’anno del Governo Monti, quello del presunto salvataggio dell’Italia dalla spaventosa crisi in nome dell’Europa, quello dei grandi poteri e delle potenze finanziarie, quello delle lacrime e sangue della ministra Elsa Fornero (lacrime sue e sangue dei lavoratori). I giovani artisti che seppero ideare e confezionare un progetto vincente per Scenario furono i Fratelli Dalla Via, che in Mio figlio era come un padre per me, riecheggiavano con sagacia le cronache dei suicidi degli imprenditori colpiti dalla crisi; il Collettivo InternoEnki, che nel corale M.E.D.E.A. Big Oil raccontava le prevaricazioni degli interessi dell’industria petrolifera sulle popolazioni e sull’ambiente della Basilicata; Elisa Porciatti, che in Ummonte prendeva di petto la grande crisi della più antica banca italiana, il Monte dei Paschi di Siena; nO (Dance first. Think later), che in trenofermo a-Katzelmacher trasferiva le tensioni razziste e xenofobe descritte da Fassbinder in un Sud neomelodico e kitsch; e Beatrice Baruffini, che in W (prova di resistenza) recuperava una pagina di storia della Resistenza a Parma, che in qualche modo interrogava le responsabilità del presente.

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“I Veryferici” (foto Stefano Vaja)

Il 2014 è l’anno dei grandi sconvolgimenti internazionali, che tuttavia sfiorano appena gli artisti della Generazione 2015, che sembrano ‘ignorare’ gli orizzonti internazionali (la crisi ucraina, la nascita dell’Isis, il bombardamento israeliano su Gaza, tanto per citare i fatti più clamorosi), a parte le elezioni del Parlamento Europeo, che in Mad in Europe di Angela Demattè trova un’intelligente interpretazione (di cui ho avuto modo di parlare proprio in questo blog). Ma visto insieme agli altri tre artisti vincitori, anche Mad in Europe sembra riecheggiare un’altra esigenza: quella di dar voce al disadattamento di persone più o meno isolate dal mondo, di fronte alla propria solitudine o a una rete sociale ostile o distante. Forse il fatto che il 2014 sia stato l’anno del più massiccio afflusso di migranti sulle coste italiane e del grande conflitto tra accoglienza e ostilità, non vuol dire nulla, ma evidentemente la questione sociale sembra aver prevalso nel dibattito su quella politica, l’antropologia ha prevalso sulla denuncia, allargando lo sguardo dal tema dei migranti ai tanti altri temi che implicano l’inclusione o l’esclusione sociale. Sarà una coincidenza, ma – come dicevo – Angela Demattè porta in scena una donna, anzi una ‘madonna’ esplicitamente mad, insomma “fuori di testa” e di certo disorientata. Caroline Baglioni, dal canto suo, recupera nella partitura fisico-coreografica di Gianni la storia vera dello zio vittima di una malattia psichica. E poi DispensaBarzotti in Homologia mette al centro della scena la solitudine di un anziano, in una poetica fantasia illusionistica. E infine Mario De Masi espone allo sguardo del pubblico i suoi Pisci ’e paranza, emarginati in rotta di collisione fra loro nel limbo straniante di una stazione.

Non vorrei forzare la mano, ed è chiaro che quanto ho scritto finora finisce per annullare le tante differenze nel tentativo di trovare consonanze. E però quelle consonanze ci sono. Così come stanno anche nella Generazione 2017, dove i giovani artisti hanno unanimemente raccontato, come dicevo, la volontà di affermazione dell’identità. E’ forse che ci sentiamo tutti più deboli di fronte a un mondo sempre più complesso e minaccioso e di fronte a una realtà digitale sempre più invadente e spersonalizzante, ma probabilmente il tema dell’affermazione dell’identità, in questo frangente, non è secondario a quello politico o antropologico. La soggettività reclama attenzione e centralità. Una soggettività non egoistica, sia chiaro: il punto non è l’egolatria, ma il riconoscimento del proprio diritto a esistere. Declinabile, ovviamente, in modi molto diversi.

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“Un eschimese in Amazzonia” (foto Stefano Vaja)

Da questo punto di vista il vincitore (ex aequo) del Premio Scenario, Un eschimese in Amazzonia di Liv Ferracchiati e del suo ensemble The Baby Walk, è esemplare a cominciare dal titolo, esplicitazione di una condizione paradossale di estraneità e sradicamento, direi proprio di diversità, che dichiara da subito i due poli del discorso: da una parte l’individuo – il diverso – e dall’altra l’ambiente, inevitabilmente ostile, o perlomeno incongruo e incapace di accoglienza. Il titolo (una citazione da Porpora Marcasciano, già presidente del Movimento Identità Transessuale) introduce le figure in scena. L’eschimese è il protagonista che, in diversi monologhi (o meglio, tentativi di dialogo: con gli altri, con sé, con il pubblico), esprime la condizione di una diversità che parte dall’occorrenza specifica della transessualità, per riverberarsi più genericamente sui temi LGBT e arrivare infine ad attingere al tema universale della differenza di ogni uomo di fronte alla società: individuo vs massa. La massa, appunto: cioè le quattro figure che, con recitazione corale e attitudine da team calcistico, formano quella vox populi (‘amazzonica’, diciamo così) che condanna il diverso al senso (‘eschimese’) di estraneità ed espulsione. Quindi, non un banale spettacolo di denuncia o rivendicazione dei diritti transgender e lgbt, ma un oratorio pop sull’affermazione dell’identità. Che ha il suo perno nel profondo disequilibrio delle modalità recitative: all’unisono e alla perfetta partitura ritmica del coro, infatti, corrisponde l’incertezza e l’impaccio fisico-verbale dell’eschimese, incapace di omologarsi – anche linguisticamente, espressivamente, comunicativamente – a chi lo circonda, disinteressato a far parte di una squadra del buonsenso e del perbenismo. Alla fine quel coro si scioglierà per mostrare gli sguardi personali degli individui che lo formano, e che racconteranno a modo loro, come in una sorta di Rashomon, l’eschimese. Ma rimane l’impressione di una irriducibilità dell’opposizione tra massa e individuo e, a maggior ragione, l’esigenza per gli individui socialmente più deboli, a cominciare dalle persone transgender, di affermare la propria identità, anzi la propria imprendibilità. Perché l’affermazione dell’identità è tanto più necessaria quando questa identità non è inscatolabile e reclama con forza il diritto alla sua fluidità e dinamicità, alla sua indicibilità.

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“I Veryferici” (foto Stefano Vaja)

Analogamente si presenta il vincitore del Premio Scenario per Ustica (su temi civili), cioè I Veryferici dell’ensemble multietnico Shebbab Met Project, che firma collettivamente un lavoro che attraverso l’esaltazione della forma-gruppo punta proprio, ancora una volta, all’affermazione dell’identità individuale, nel bene e – inaspettatamente – nel male. La storia è quella di ragazzi di periferia che decidono di creare un album musicale per emanciparsi da un destino di marginalità ed esclusione: un fulcro narrativo pop, attraverso il quale abbiamo l’occasione di veder sfilare i vari ‘solisti’ in pezzi recitati seguiti da brani canori, da cui emerge la loro condizione e la voglia di rivalsa. Esistono. E vogliono gridarlo – anzi, cantarlo – forte. In questo sono accomunati italiani e stranieri, perché al di là del discorso più appariscente (che ai frettolosi fa rubricare questo spettacolo nel teatro dei migranti), la questione vera è tutt’altra, e cioè la condizione di marginalizzazione di individui e gruppi sociali non solo e non tanto su base etnica, quanto su base economica e urbanistica. Perché si parla di periferie, che sono al tempo stesso periferie urbane ed economiche: sacche di esuberi esistenziali causate da un sistema che crea rifiuti. Da questi rifiuti nascono, come nuovi supereroi – evocati in un ironico tableaux vivant – i Veryferici, che sono molto (very) periferici, e che fanno della marginalità il loro punto di forza. Ma il sogno pop si infrange, come in una triste favola neorealistica o mélo, nel momento in cui il salto richiede di sottostare a regole di un mondo esterno che i ragazzi sono incapaci di maneggiare. Il fantomatico produttore che può aprire la strada del successo chiede la vittima sacrificale, una ragazza “che ci sta”. La brama di emancipazione supera la dignità e soprattutto supera la retorica del “povero buono”: il branco spinge il capro espiatorio (guarda caso, la più ‘esterna’ al gruppo) nelle grinfie dell’orco, e questo segnerà la fine del sogno. Per tutti, tranne che per una di loro, disposta a calpestare tutto pur di emergere, non tanto per raggiungere il successo quanto per sfuggire al destino segnato. L’affermazione dell’identità, che finora avevamo visto come valore di emancipazione per gli emarginati dalla società, si trasforma in una corsa egoistica nella quale implodono le belle speranze dell’album sognato, lasciando solo macerie. Nelle quali non si ritrovano solo i reietti delle periferie, ma ci ritroviamo tutti noi, stritolati dalla morsa dell’ambizione.

valentina dal mas
“Da dove guardi il mondo?” (foto Stefano Vaja)

Se Un eschimese in Amazzonia e I Veryferici esprimono nella maniera più lampante il tema dell’affermazione dell’identità, non ne sono immuni gli altri due lavori. A cominciare da Da dove guardi il mondo? di Valentina Dal Mas, vincitore del Premio Scenario Infanzia. Altro spettacolo che fin dal titolo avanza la questione dell’identità e della necessità della sua espressione. Qui l’affermazione non è rispetto all’esterno (la società, la massa, le difficoltà economiche), ma a un handicap soggettivo. La storia è quella di una bambina di 9 anni che soffre di disgrafia: non sa ancora scrivere, e per lei poter comporre il proprio nome su un foglio rappresenta un traguardo lontano e irraggiungibile. Ad aiutarla a superare la disabilità in una lotta contro sé stessa, che assume la forma struggente di una danza spezzata e di una verbalità rocambolesca, sono amici immaginari: oggetti che, nella sua mente, assumono le sembianze dei segni grafici che dovranno fissare sul foglio il suo nome. Spigolo, Fischietto, Vortice e Schiumadabarba sono la reificazione del processo di scrittura e, attraverso questo, del processo di auto-riconoscimento come individuo. L’affermazione della propria identità è dunque un lavoro di distillazione del proprio mondo, che crea un precipitato oggettivo (di oggetti) che rende riconoscibile il sé attraverso il fuori da sé. E alla fine, la bambina riuscirà a scrivere il proprio nome, cioè a riconoscersi, di fronte agli altri e di fronte a sé stessa, proprio grazie alla mediazione delle cose che la circondano. Uno spettacolo espressamente indirizzato ai bambini, che finisce per portare in scena – come nel lavoro di Ferracchiati e degli Shebbab – non solo il ‘diverso’, ma una condizione che ci accomuna tutti, e che nello specifico è quella della conquista della capacità espressiva (e di auto-riconoscimento) dell’individuo.

barbara berti
“Bau#2” (foto Stefano Vaja)

Meno diretto, ma ugualmente stringente, sembra il riferimento all’affermazione dell’identità nell’altro vincitore ex aequo di Scenario, Bau#2 di Barbara Berti, in cui il movimento fisico e della danza sono accompagnati dalla performer con l’enunciazione verbale di ciò che sta compiendo o delle riflessioni concettuali sullo spazio-tempo collegate al movimento. La questione primaria affrontata dalla danzatrice, infatti, riguarda la riflessione sulla definizione dello spazio, dello sviluppo temporale e della rappresentazione, effettuata attraverso corpo e parola. Lo spazio immacolato accoglie la performer in blu (ma su un lato, alla consolle della regia, sta l’assistente in rosso), che definisce lo spazio stesso con i propri attraversamenti e le proprie parole, determinando anche l’accensione e lo spegnimento di luci (ogni tanto si accendono fari su porzioni di pubblico, e ogni tanto l’intero teatro piomba nel buio mentre si sente ancora danzare e parlare), arrivando fino a ‘sfondare’ la scatola scenica in alto (gli unici due oggetti ‘volano’ oltre il cielo all’inizio), di lato (con le uscite) e addirittura in basso (con lo ‘sfondamento’ del palcoscenico, alluso dal sollevamento di un pezzo di tappeto). Si tratta, insomma, di uno spettacolo sulla definizione ed enunciazione del ‘dove siamo’. Per Barbara Berti si tratterebbe di un lavoro che intende “espandere la Coscienza del corpo e la Coscienza della mente” partendo da “esperienze meditative e rituali”. E allora, siamo ancora una volta alle prese con uno spettacolo incentrato sull’affermazione dell’identità. Che non è più quella negletta nell’esperienza dell’Eschimese in Amazzonia o dei Veryferici e neanche quella della bambina disgrafica che deve conquistare la capacità di rispecchiarsi nel proprio nome scritto. Ma è quella più radicale dell’essere in sé e per sé. Insomma, se Valentina Dal Mas si interrogava su Da dove guardi il mondo? Barbara Berti propone una riflessione su dove ti collochi nel mondo. Il corpo, nello spazio vuoto e ridefinito (direi ‘costruito’) dai suoi movimenti, afferma la centralità dell’homo faber: il mondo non esiste se non è esperito ed enunciato (semantizzato) dall’uomo. Che è poi, in fin dei conti, anche il senso stesso del fare teatro: la costruzione di mondi nelle mani di un performer.

La Generazione Scenario 2017, nell’apparente regressione tematica rispetto alle due generazioni che l’hanno preceduta – quella più ‘impegnata’ sui temi dell’agenda politica ed economica italiana del 2013, e quella più attenta alle faglie sociali e alla presenza di persone disadattate del 2015 –, segna un ritorno alla necessità dell’affermazione dell’io, che è richiesta di dignità e al tempo stesso espressione di un’assunzione di responsabilità. Faccio teatro, ergo sum… e il mio essere dà forma al teatro; io sono nel teatro per affermare il mio essere nel mondo, con la speranza di modificarlo: un’affermazione lampante nel lavoro di Barbara Berti, che è perfettamente applicabile anche a tutti gli altri.

 

 

Generazione Scenario 2017 – Prime rappresentazioni.

Da dove guardi il mondo? testo, regia, coreografia, interpretazione Valentina Dal Mas; tecnica Martina Ambrosini; Premio Scenario infanzia 2017. Prima assoluta: Casalecchio di Reno, Teatro Laura Betti, 2 dicembre 2017.

I Veryferici regia coordinata da Camillo Acanfora; drammaturgia coordinata da Natalia De Martin Deppo; interpreti Lamin Kijera, Moussa Molla Salih, Alexandra Florentina Florea, Natalia De Martin Deppo, Youssef El Gahda, Matteo Miucci, Younes El Bouzari, Gianfilippo Di Bari, Camillo Acanfora; visual artist Aurélia Higuet; organizzatrice Angela Sciavilla; Premio Scenario per Ustica 2017. Prima assoluta: Casalecchio di Reno, Teatro Laura Betti, 2 dicembre 2017.

Bau#2 dalla serie BAU – Coreografia del pensare; concept, coreografia, danza, testo Barbara Berti; dramaturg Carlotta Scioldo; danzatrice, assistente luci Liselotte Singer; Premio Scenario 2017 ex aequo. Prima assoluta: Bologna, Teatri di Vita, 2 dicembre 2017.

Un eschimese in Amazzonia – Trilogia sull’Identità – Capitolo III; ideazione e testo Liv Ferracchiati; scrittura scenica di Greta Cappelletti, Laura Dondi, Liv Ferracchiati, Giacomo Marettelli Priorelli, Alice Raffaelli; con Greta Cappelletti, Laura Dondi, Liv Ferracchiati, Giacomo Marettelli Priorelli, Alice Raffaelli; suono Giacomo Agnifili; produzione Compagnia The Baby Walk; Premio Scenario 2017 ex aequo. Prima assoluta: Bologna, Teatri di Vita, 2 dicembre 2017.

Visti a: Bologna, Teatri di Vita e Casalecchio di Reno, Teatro Laura Betti, 2-3 dicembre 2017.

 

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