“Un solenne giardino di parole, fammi creare”, si legge in Sonno e sogni. Quel giardino, fertilizzato con la poesia, è il teatro di Franco Scaldati, dove la parole danzano al ritmo di composizioni verbali che sono musica, precipitando con appassionata leggerezza nella fisicità di corpi popolari, piccoli insetti o creature angeliche che “abitano il confine dello sguardo” dello spettatore. Da tempo Enzo Vetrano e Stefano Randisi sono impegnati nell’impresa di dar vita ai testi di Scaldati, cercando il punto di equilibrio tra il rispetto della scrittura originaria di quelle parole in un palermitano inestricabile e la loro efficacia sui palcoscenici al di fuori della Sicilia: questione, peraltro, già affrontata dall’autore stesso, che nelle ultime opere ‘sporcava’ la sua lingua con un italiano sempre più presente. Ombre folli, la terza tappa del percorso di Vetrano e Randisi dentro il teatro di Scaldati, trova un’ulteriore soluzione rispetto ai precedenti Totò e Vicè (di cui sta anche per uscire una versione cinematografica) e Assassina. Una soluzione che sembra scaturire dal testo stesso, e che ammanta di ulteriore fascino quelle parole e la storia stessa che ci viene raccontata.
Perché questa è prima di tutto una storia di parole, dove i corpi sono strumento delle parole, che a loro volta hanno il compito di costruire quei corpi: un magico ouroboros, un collegamento di necessità corpo-parola che è il sistema linfatico della drammaturgia scaldatiana. E che qui si va a incrociare con un altro dispositivo ricorrente della sua opera: il doppio. Proprio su questo incrocio si innesta la versione di Vetrano e Randisi di Ombre folli (mai rappresentato prima d’ora e tuttora inedito), in cui la traduzione consecutiva delle battute in italiano viene fatta dall’altro personaggio: ascoltiamo le parole dell’uno e poi la loro traduzione detta dall’altro. Un sistema apparentemente forzato, che invece spalanca questo testo a ulteriori sensi. Anzitutto, da un punto di vista meramente sonoro, l’intero spettacolo acquista una musicalità imprevista: una sorta di eco sfalsato accompagna ogni battuta, riverberando l’impasto siciliano in un flebile rimbalzo italiano, che scandisce i rispettivi monologhi. Monologhi che, dunque, non sono più sonate per strumento solo, ma per due strumenti, in cui la solitarietà si fa condivisione e l’apparente dialogo si stringe a voce univoca della memoria. Quello che l’impressione musicale suggerisce è proprio la sensazione che i due personaggi di Ombre folli, cioè la travestita e il suo redentore-carceriere che vivono una stralunata vita in simbiosi, siano indissolubilmente legati: una è parte dell’altro e viceversa.
Diceva Scaldati: “Questa è una lezione che ho appreso da Beckett: un uomo ha in sé ogni altro uomo”. Ecco, allora, nei suoi testi, il proliferare di coppie di personaggi, che non si esprimono come in un classico contrasto, ma come in un arcaico canto amebeo (e la parola ‘canto’ è qui davvero calzante). Molto spesso nei dialoghi di Scaldati un personaggio è il doppio dell’altro, ne rappresenta l’altra possibilità e – al tempo stesso – l’enfasi e l’eco. Vetrano e Randisi ribadiscono questo aspetto, utilizzandolo come piano di sostegno della traduzione in italiano, rendendo così ancora più evidente questa drammaturgia del doppio.
Ma non si tratta di una mera trovata formale. Perché poi i due personaggi, che anche grazie a questa traduzione percepiamo come doppi, sono dichiaratamente antitetici, e lo sono su un tema potente e insinuante come la sessualità. Prima parla un personaggio che, come scrive bene Enrico Fiore, sembra uscito dalla penna di Genet: di notte si traveste da donna e si prostituisce, cercando di nascondersi dal vicinato, e quando qualcuno lo riconosce in abiti femminili, allora lo uccide. Una travestita che diventa serial killer per sfuggire al pregiudizio e al dileggio, un personaggio fragile che trasferisce la sua fragilità in una ferocia che non lascia spazio per orgoglio o pentimenti. Per lei, il discorso è facile facile: a lei piace travestirsi, trova naturale prostituirsi e le pare del tutto ovvio che se qualcuno la riconosce lei debba farlo fuori. Il suo monologo ha il sapore di una confidenza tra amiche attorno a una tazza di caffè, sospesa tra il pettegolezzo e piccoli strappi tra le parole da cui si intravede il dolore di una incolmabile solitudine. Poi accade qualcosa: una sera, un vecchio compagno, che passa per caso dalle parti in cui lei batte, la riconosce, ma stavolta lei non lo uccide. Lo segue.
Il nuovo monologo è di questo personaggio senza strappi che lascino intravedere emozioni, ma la cui corazza pare evidenziare maggiormente – anziché celare – altrettanto dolore e altrettanta solitudine. Lui ha deciso di prendere con sé l’amico di un felice tempo adolescenziale, ora ritrovato come prostituta, per custodirne una presunta integrità morale e impedirgli di continuare a fare certe cose. Lo porta a casa, gli consente di travestirsi a casa, ma non di uscire: lo chiude a chiave, ma con dolcezza; gli consente di fare passeggiate, ma solo al suo fianco. Paternamente, fraternamente, amorevolmente. Lui e lei diventano una vera coppia, condividono la loro vita fino alla vecchiaia, sacrificando un po’ di sé, ma conquistando il traguardo della solidarietà, dell’affetto, in un certo senso dell’amore. Un matrimonio bianco? Sicuramente il superamento della solitudine. In nome di una vita borghese fatta di piccole cose, scandita dalla televisione e suggellata da un gelato, quello mangiato insieme alla fine dello spettacolo: dalla trasgressione più eccentrica o efferata, i due planano nell’orizzonte casalingo di una medietas vissuta come un surrogato di paradiso, che per loro è, inaspettatamente, il vero paradiso che mai avrebbero immaginato.
Una strana storia d’amore che unisce il moralista represso e la prostituta reclusa, che nel finale raggiunge punte di forte emozione e commozione, nel momento in cui il giudizio lascia il passo alla compassione, cioè al riconoscere nelle fragilità e nelle contraddizioni delle scelte (amare, deprecabili, criminali…) una umanità vera e profonda. Quanto è umana la travestita che accetta una dolorosa condizione di subalternità che tuttavia le consente di medicare le ferite di dolori più profondi e antichi… e quanto è umano il moralista che nella sua rigidità non riesce a trovare una soluzione esistenziale, e che alla fine trova nella solitudine di un altro emarginato la stampella a cui appoggiarsi e con il quale costruire la propria vita, sia pure attraverso una segregazione accettata. Come poter inventare una coppia così sbilenca e paradossale e come riuscire a renderla così vera e umana, così intensamente rappresentante del nostro sconfinato e mai del tutto confessato bisogno d’amore? Non a caso lo spettacolo si chiude con le parole di una canzone di Mina cantata da Johnny Dorelli: “Ti guardo mentre sei / abbandonato lì, / odio tutto di te / ormai è così… / Certo visto così / da vicino / c’è il sonno che ti dà / un’aria da bambino… / Ti svegli e al tuo richiamo / rispondo sono qui / amore mio ti amo”.
Servono pochi elementi a Vetrano e Randisi per Ombre folli, e d’altra parte sanno che con Scaldati, come dicevo, sono le parole a costruire tutto. Sono le parole che evocano e danno forma ai corpi, e la staticità insistita (ma mai forzata) dei corpi degli attori dà forza alle loro parole (e al loro doppio, in italiano). Perché poi quei corpi hanno la consistenza dell’ombra: ombre folli, lo dice il titolo, ma lo dice proprio la loro presenza. Tutto il teatro di Scaldati è teatro di fantasmi, di ombre, di morti che tornano ancora un’ultima volta (e ancora un’altra ultima, e un’altra ultima…) a rievocare il proprio destino, ma sempre obliquamente: non ci sono racconti, ma solo evocazioni, allusioni. Una sinestesia narrativa, struggente e misteriosa, che obbliga lo spettatore a sentirsi voyeur di un mondo altro (doppio), che ha il retrogusto di una Spoon River dal sapore dolciastro della malinconia e del senso della perdita.
Ed è così che inizia, infatti, Ombre folli, in cui un personaggio, che è presumibilmente l’autore, scrive a macchina parole che da subito si confondono tra l’oralità siciliana e la grafia italiana che va componendosi in proiezione sullo sfondo. Quei personaggi, che vedremo poi riuniti in una convivenza di amore che non sa dire il suo nome, sono fugacemente evocati in un prologo di parole che richiede allo spettatore di addentrarsi in un edificio (altro topos di Scaldati) che mostra i segni della vecchiezza e dell’abbandono. Da lì dovranno uscire le apparizioni, i fantasmi della travestita e del moralista – forse morti da tempo, forse frutto di un sogno o di una leggenda – con i loro monologhi-sonata, con la parola poetica che sposa la follia della vita, il paradosso di incontri occasionali che trasformano due solitudini estreme in una tranquilla coppia piccolo-borghese. E lì, in quel palazzo dove il ricordo dei suoi fantasmi ha il fragile calore di candele sparse sul pavimento, sapremo poi che finirà la loro vita insieme, quando i corpi si disgregheranno con la forza del tempo, lasciando libere le parole – e questa folle storia – di volteggiare ancora, e ancora, e ancora.
Ombre folli di Franco Scaldati; interpretazione e regia Enzo Vetrano e Stefano Randisi; produzione Cooperativa Le tre corde, Compagnia Vetrano/Randisi. Anteprima assoluta: Milano, Teatro Filodrammatici, 25 ottobre 2017.
Visto a: Casalecchio di Reno, Teatro Laura Betti, 12 gennaio 2018.