Il mostro della laguna inchiostro

Ha il sapore di un’allegoria, sembra originato da un incubo notturno, si nutre di stratificazioni di senso che provengono da numerosi luoghi – dalla mitologia alla fantascienza, dall’alchimia alla filosofia –, è innervato di sensualità ed erotismo, è figlio della solitudine dell’epoca contemporanea, ci accompagna nell’accettazione della perdita e della sconfitta dei nostri giorni. E’ tutto questo, e sicuramente molto di più, Ink di Dimitris Papaioannou, che nasce come evento installativo-performativo e diventa spettacolo di teatrodanza, rimanendo nel limbo tra i generi e risucchiando lo spettatore nel limbo tra pensiero ed emozione. E chiudendosi su un’immagine cupa e dolorosa, plumbea come il color inchiostro che avvolge tutto senza fine.
Ink è sotto il segno dell’acqua. Che sgorga incessante da un irrigatore a pioggia e si sparge sul terreno ricoperto da grandi lastre di plexiglass. A manovrare l’attrezzo è un uomo vestito in nero (lo stesso Papaioannou), come nero è l’intero spazio, chiuso da pareti di nylon color inchiostro. Il ‘guardiano’ dell’acqua è l’abitatore unico di un universo chiuso, che cura con disciplina secondo un disegno a lui noto, che non comprendiamo, spostando l’irrigatore, regolandolo, usando una boccia di vetro per raccogliere parte dell’acqua e redistribuirla sul pavimento diventato un acquitrinio o una laguna. Improvvisamente, dall’esterno, si insinua un’altra figura, inizialmente indistinguibile, mostruosa. Un altro uomo (Šuka Horn), nudo, che striscia sotto il plexiglass e che il ‘guardiano’ tenta di respingere o di contenere, cercando dapprima di rinchiuderlo in quelle stesse lastre.

Va in scena una lotta che lascia trapelare prima curiosità e poi attrazione reciproca tra due figure radicalmente opposte. Finché la figura ‘mostruosa’ e aliena, superando lo shock fisico del passaggio dal suo altrove a questo nuovo ambiente, entra definitivamente a far parte del mondo del ‘guardiano’, che comunica con lui attraverso il suo linguaggio, l’acqua. L’uomo copre il pube della creatura con un polpo, poi gli offre un paio di mutande. Sono i primi passi di uno scambio che non è a senso unico. L’alieno spalanca visioni che sembrano alludere a frammenti irrappresentabili di un altrove fisico o ideale, come un campo di grano, o una sfera specchiata da discoteca che buca il cielo color inchiostro con mille stelle. La relazione tra i due è tutta sul filo della curiosità reciproca e della fascinazione, dell’avvicinamento e dell’allontanamento: nel punto massimo di comunione tra i due, l’alieno sparisce, prima di ritornare dopo un lungo momento di solitudine del ‘guardiano’. Al termine, ancora un momento di intensa comunicazione tra le due figure, dove l’alieno incarna un’immagine scimmiesca da animale selvaggio addomesticato, prima di sparire per sempre, lasciando il ‘guardiano’ in una definitiva, assoluta solitudine, al centro di uno spazio più cupo che mai, a scatenare il dolore della perdita sul polpo che viene sbattuto con violenza a terra.

Lo spettacolo è evidentemente concettuale, dimostrativo, pur nel suo ermetismo simbolico. Impone uno sguardo razionale, elude una partecipazione emozionale: richiede soprattutto osservazione. Le stesse azioni e i movimenti rimandano a meccanismi espressivi e performativi imperniati sul distacco: il lavoro di Papaioannou è estremamente tecnico nel manovrare l’irrigatore o altri strumenti come la boccia di vetro e un vecchio giradischi, e nel gestire molte azioni insieme a Horn. Perfino il rapporto tra i due è quasi esclusivamente regolato da gesti e movimenti strumentali, lasciando solo rarissimi istanti aperti su una qualche narrazione più emotiva. Insomma, Ink è un lavoro filosofico, che sembra escludere l’emozione. E invece l’emozione c’è, ed è tutta fuori dallo spettacolo, quando il buio cala definitivamente e la notte inghiotte Papaioannou che scaraventa il polpo ritmicamente sul terreno bagnato, e improvvisamente scopriamo di aver vissuto con lui un’avventura interiore di sconfinata emozione, talmente forte da essere indicibile, irrappresentabile, appunto: rappresentabile solo con il distacco di pure azioni meccaniche.

Ink si presta razionalmente a un’infinità di simbologie, nelle quali ciascuno può trovare una propria strada razionale. Sono tantissime. Talmente tante da far crescere il sospetto di un depistaggio. Il ‘guardiano’ dell’acqua potrebbe essere una sorta di demiurgo o di creatore, e l’alieno la sua creatura: ed ecco, quindi, che l’allegoria si dipana facilmente su questa strada raccontando la creazione; magari proprio quella biblica (in principio il buio, l’acqua…), e senza rinunciare all’evoluzionismo (la vita comincia nell’acqua, l’essere animale prima striscia, poi pian piano si tira su, fino a diventare homo erectus). Non distante dal tema della creazione ci sarebbe, poi, quello del rapporto tra padre e figlio, dalla dinamica complessa di odio-amore. D’altra parte non occorre scomodare complesse simbologie per ricordare come l’acqua sia considerata elemento femminile e materno, vitale: lo spruzzo seminale dell’irrigatore manovrato dal padre contamina la laguna dell’acqua ‘materna’, fino a far ‘nascere’, nella sua più esplicita nudità, il figlio. Ma nel tema della creazione c’è anche quello teologico, che si salda con quello mitologico, che un artista come Papaioannou, forte della tradizione culturale greca, ha esplorato spesso: e quindi, il rapporto tra i due non può essere, in qualche modo, anche quello tra dio e uomo, nella dialettica religiosa tra obbedienza e tradimento, magari alludendo anche a un qualche paradiso terrestre bucolico, oppure nella rievocazione delle lotte mitologiche tra i signori dell’Olimpo e i terrestri?

Le possibili tracce, tutte razionalmente decodificabili dagli spettatori secondo la sensibilità di ciascuno, non si esauriscono qui. Tra la figura vestita di nero e l’alieno nudo prende forma un rapporto come tra due opposti che si attraggono e si respingono: diciamo una rappresentazione antropomorfica del rapporto tra yin e yang, che ciascuno può interpretare come crede. Oppure siamo di fronte all’immagine del dissidio tra civiltà e natura, tra l’uomo che costruisce e interviene nella natura piegandola ai propri disegni e il suo stesso sé irrazionale e animale, che rimanda a una condizione naturale che la civiltà ha rinnegato e che continua a costringere. L’alieno può essere, insomma, sia il sé irrazionale che non si riesce a reprimere sia l’incarnazione vera e propria della natura. Un’altra possibilità è che l’alieno sia realmente un alieno in senso letterale, ossia un altro: da questo punto di vista, si può dunque trattare di un discorso sulla diversità, e sulle reazioni di convivenza e rispetto, o di repulsione e conflitto, senza escludere il tentativo di omologazione e assimilazione, che è un’altra faccia della distruzione della diversità. E poi ci possono essere le interpretazioni più narrative, in chiave sentimentale (l’incontro tra le due figure racconta una storia d’amore, dal primo incontro all’attrazione, dal conflitto alla separazione) o avventurosa sulla falsariga di una classica trama fantascientifica o horror: di alieni venuti dallo spazio che si scontrano con gli uomini in una difficile, sia pur desiderata, coabitazione sono pieni la letteratura e il cinema, così come di mostri della laguna nera o di Frankenstein e di freaks o animali strappati al loro ambiente originario…

Il gioco delle interpretazioni potrebbe continuare ancora a lungo, ed è quello che Ink sembra innescare, con il suo aspetto di spettacolo filosofico, che non lesina allusioni esoteriche. Per un attimo il mito del portatore d’acqua o Acquario sembra perfino tramutarsi nel simbolo della Temperanza, in un momento iconico che in una sorta di tableaux vivant ricorda la carta dei tarocchi in cui la figura travasa acqua da un’urna a un’altra. Alcune azioni più di altre colpiscono per la loro forza narrativa in una performance che sembra privilegiare la descrizione di una condizione a quella di una storia. Per esempio, il reiterato tentativo di addomesticamento dell’alieno come una sorta di Ragazzo selvaggio o di Kaspar Hauser, che parte dall’offerta delle mutande, indossate e poi strappate, per arrivare alla grottesca scena finale in cui assistiamo alla trasformazione dell’alieno in una sorta di scimmia artificialmente umanizzata in una umiliante passerella circense: ed è l’omologazione (e quindi distruzione) della differenza. Sembra mancare all’uomo quell’amore altruista che invece è dell’addetta alle pulizie nel film La forma dell’acqua, che libera il mostro costretto nel laboratorio per lasciarlo tornare al suo elemento acquatico, riconoscendone l’identità altra. Ma più del lungometraggio di Guillermo del Toro penso, piuttosto, al cortometraggio originario di Marc Nollkaemper, il cui titolo coglie meglio quel senso che ritorna in Ink, e cioè The Space Between Us. E’ nello spazio tra loro due, l’uomo e l’alieno, che si consumano l’equivoco e l’incomprensione dell’altro. Folgorante in questo senso è il loro primo approccio fisico, quando l’uno cerca di rinchiudere l’altro nel plexiglass (che può ricordare vagamente la capsula in cui sta il mostro dei due film), in un potentissimo abbraccio che pure è distante: quello spazio tra loro si riduce e al tempo stesso la barriera evidenzia la separazione.

Non è un caso che l’unica altra figura nello spettacolo sia quella di un polpo, che sta nella boccia di vetro dell’uomo, il quale copre con la piovra il pube della creatura nuda. Il polpo è in un certo senso la rappresentazione dell’alieno fatta dal ‘guardiano’: ne diventa simbolo e icona in virtù del suo portato simbolico “mostruoso” , almeno secondo un’iconografia da romanzaccio o da b-movie. Un polpo? “Molte persone considerano la piovra una creatura aliena” dice Craig Foster, protagonista dell’incredibile avventura di amicizia con un polpo sui fondali sudafricani, a cui è stato dedicato il recentissimo e impressionante documentario My Octopus Teacher. Un frase illuminante che sembra rimbalzare sullo spettacolo, dove la creatura e il polpo si identificano come figure non solo selvagge, ma addirittura aliene. Foster spiega anche che il polpo è una “creatura speciale”, che “aveva qualcosa da insegnarmi”. Il rapporto tra lui e il mollusco ribalta i pregiudizi: il polpo non è un essere inferiore e anzi, se ‘ascoltato’, insegna qualcosa. E’ quanto sembra accadere nello spettacolo, dove l’atteggiamento del ‘guardiano’ nei confronti dell’alieno passa dall’ostilità iniziale a una fascinazione che in alcuni momenti sembra identificarsi con quella di Foster verso il polpo.
La natura ‘mostruosa’ del polpo incarna, dunque, la proiezione che l’uomo fa sull’alieno, ossia sul “mostro” entrato nel suo spazio. E’ l’elemento di ‘dialogo’, che è protagonista di un momento davvero inquietante dello spettacolo, ai confini con l’horror: il ‘parto’ di un altro essere. Dal polpo, infatti, fuoriesce una bambola, che sembra essere il frutto dell’incontro del ‘guardiano’ e dell’alieno. Un figlio, insomma. E non è un caso che proprio la disperazione finale dell’uomo rimasto solo si accanisca con violenza sul polpo, come fosse la rappresentazione di quell’alieno che, dopo la riduzione a fantoccio da circo, si è dileguato per sempre.

Sì, c’è tutto questo, ed è talmente tanto da assorbire l’attenzione e l’analisi. Eppure, come dicevo, il vero cuore, la vera emozione, c’è e sta altrove: in quel finale cupo e oltre quel finale. E non è uno dei tanti significati possibili e intercambiabili di uno spettacolo costruito fin troppo cerebralmente a tavolino, ma sta tutto in un sentimento, questo sì sconvolgente nel profondo e capace di strappare l’emozione dal freddo ragionamento.
La perdita.
Ink è un’elegia sulla perdita, il pianto sconfinato – demandato fin dall’inizio, come un hysteron proteron, alla pioggia incessante – di fronte alla perdita.
La perdita dell’altro, di sé, di un’occasione, della vita.
La perdita che improvvisamente sottrae il motore che ci fa andare avanti, dopo averci strappato all’apatia.
La perdita che ci affonda nella laguna acquosa della nostra solitudine, e che ci staglia in un cielo plumbeo color inchiostro.
La perdita che colmiamo sbattendo quel che rimane ossessivamente, fosse pure un polpo innocente e grottesco, come a marcare ritmicamente il tempo, quasi volendo fermare quel tempo e tornare indietro, per riavere ciò che non c’è più.
E in quegli ultimi istanti in cui il senso della perdita dilaga e sconfina nel buio infinito, e tutti siamo risucchiati a condividerne il dolore, ogni significato, ogni senso, ogni allegoria si mescolano nella loro inutilità, lasciando solo la sensazione dell’ineffabilità di un sentimento così privato e collettivo.

Ink, creazione Dimitris Papaioannou; con Šuka Horn e Dimitris Papaioannou; scene e costumi Dimitris Papaioannou; luci Stephanos Droussiotis e Dimitris Papaioannou; sound design David Blouin; musiche Antonio Vivaldi, Donald Novis, Isham Jones, Sofia Vempo, Leo Rapitis; produttore creativo-esecutivo e regista assistente Tina Papanikolaou; assistente alla regia Stephanos Droussiotis; responsabile tecnico Manolis Vitsaxakis; tour manager, relazioni internazionali, foto, video Julian Mommert; effetti speciali Nectarios Dionysatos; assistente alle prove Michalis Theophanous, Kalliopi Simou, Drossos Skotis; assistente alla produzione esecutiva Kali Kavvatha; assistente alla produzione Tzela Christopoulou; supporto tecnico Evgenios Anastopoulos, Miltos Athanasiou, Marios Karaolis, Kostas Kakkoulidis; pareti di nylon Natalia Fragkathoula, Marilena Kalaitzantonaki, Konstantinos Kotsis, Timothy Laskaratos; scultura del bambino Joanna Bobrzynska-Gomes; una produzione 2WORKS; commissionato e coprodotto da Torinodanza Festival / Teatro Stabile di Torino Teatro Nazionale, e Fondazione I Teatri / Festival Aperto Reggio Emilia; Dimitris Papaioannou è sostenuto da Megaron The Athens Concert Hall. Prima assoluta: Torino, Torinodanza Festival, Teatro Carignano, 22 settembre 2020.

Visto a: Reggio Emilia, Festival Aperto, Teatro Valli,  27 settembre 2020.

Le foto sono di Julian Mommert.

Un commento

  1. […] Una genesi, anzi una partenogenesi. Mostrata, anzi ostesa, al centro della scena, in primo piano. Perché tutti possano assistere all’evento sacro che vede la Donna dar vita a una creatura, grondando liquami dal centro di una sorta di cappella votiva, una nicchia, come fosse una Madonna della Mandorla rinascimentale. Se nella prima parte l’autonomia visiva della donna era data dalla sua ostensione (decentrata) in forma di fontana statuaria da Giardino delle Delizie, da cui zampillano liquidi che attirano i maschi come fossero i damerini danarosi che s’incollano alla Marilyn di Diamonds are a girl’s best friends, adesso la Grande Madre ha ripreso la centralità e l’assolutezza in forza del dono divino della facoltà genitrice. Nel vuoto totale, entra ora un’anziana donna nuda che attraversa molto lentamente la scena. Esce dalla porticina rientrando subito dopo ringiovanita. Lo spettacolo procede in rarefazione: la giovane donna, al centro della scena, rovescia lentamente dell’acqua, simbolo assoluto della vita, mentre sprofonda misteriosamente al di sotto della superficie. La Grande Madre Terra ritorna a essa evocando l’immagine simbolica dell’Acquario, come nel precedente lavoro di Papaioannou, Ink. […]

    "Mi piace"

Lascia un commento